Compagni di corsa
(Pubblicato sul Corriere delle migrazioni)
Io sto correndo e questo che mi si affianca a sinistra non è in tenuta per correre.
Io sto correndo insieme a uno vestito di tutto punto, ha pure la giacca a vento: uno vestito così non dovrebbe correre e soprattutto non mi dovrebbe correre a fianco. Non lo conosco nemmeno di vista, non vedo perché dovremmo correre assieme.
Io sto correndo e sul lato destro mi si affianca un altro, tale e quale a quello di prima, e non conosco neanche lui, quindi sto correndo in mezzo a due che non conosco, che non sembrano essere qua per correre, che non dovrebbero corrermi a fianco, e che invece corrono al mio stesso passo, e se io rallento, loro rallentano.
Io sto correndo e comincio a sentirmi a disagio.
Mi chiedo se loro due si conoscono, e penso che sì, tra di loro si conoscono abbastanza da avere deciso di affiancarmi uno da un lato e uno dall’altro, una cosa che non può accadere per coincidenza e che quindi deve essere stata pianificata, e se l’hanno pianificata si sono parlati, e se si sono parlati si conoscono, e invece io non li conosco e non li voglio nemmeno conoscere, soprattutto perché è tardi, sono da solo e non ho nessuno con cui pianificare niente per oppormi a quello che loro hanno pianificato per me.
Allora pianifico che potrei accelerare di scatto e vedere che succede, ma siccome sto già correndo accelerare vorrebbe dire scappare, e se poi mi inseguono che faccio?
Allora alzo la testa, ma la devo alzare parecchio perché questi due sono alti, non solo rispetto a me, ma alti in assoluto, e se non sono robusti lo sembrano a causa delle giacche a vento, quindi no, non è il caso di farci a botte, meglio se blocco lo sguardo a mezzo busto e lo riporto indietro, senza inquadrare la testa, che è troppo in alto, riabbasso gli occhi e continuo a correre guardando per terra, al mio ritmo, che è diventato il loro.
Io sto correndo però sono nervoso, mi confondo e sbaglio percorso, salto la traversa giusta e giro a quella sbagliata, me ne accorgo solo dopo cinquanta metri, e me ne accorgo perché i primi tre lampioni funzionano e gli altri dodici no, quindi adesso stiamo correndo al buio, nella traversa che di solito evito perché non è illuminata.
Io sto correndo e ci vuole un poco prima che gli occhi passino dalla luce al buio, qualche secondo in cui non ci vedo quasi per niente, però questi due sono sempre qua, li sento, uno da un lato e uno dall’altro, e quando le pupille mi si dilatano penso che forse loro non hanno ancora riacquistato la vista e potrei approfittarne per guardarli in faccia senza farmi accorgere.
Solo che per guardare in alto non guardo più a terra e inciampo su una pigna, mi scompongo un po’ nella corsa e vado a sbattere contro quello di destra, e allora mi rendo conto che non ho sbagliato percorso, io non lo sbaglio mai il percorso, faccio sempre lo stesso, lo seguo come se avessi il pilota automatico, e infatti ero andato per girare a destra alla traversa giusta, ma questo qua, alto e robusto com’è, mi aveva chiuso il passo, c’ero andato a sbattere addosso proprio come ci ho sbattuto addosso ora, e avevo dovuto continuare dritto fino alla traversa dopo, quando quello sulla sinistra mi aveva spinto a destra, e mi aveva fatto prendere questa, quella che scarto sempre perché dopo cinquanta metri diventa buia.
Mi chiedo se anche loro due sapevano che questa è la traversa coi lampioni rotti e se lo sapevano come facevano a saperlo, e mi rispondo che pure se non sembrano del posto il quartiere devono conoscerlo bene, e se conoscono bene il quartiere, allora conoscono bene pure me, che qui ci vengo a correre tutte le sere.
Mancano sette lampioni rotti alla fine della traversa e io ancora non ho capito cosa vogliono questi da uno che corre in maglietta e pantaloncini e in mano ha solo le chiavi della macchina, e allora penso che, se non altro per una questione di taglia, non possono volere né la maglietta e nemmeno i pantaloncini, e che quindi vogliono per forza la macchina, e io di macchina ho solo quella, se me la tolgono rimango a piedi, quindi no, mi dispiace ma io furti non ne posso subire, fatevela prestare da vostra sorella la macchina, andate a rubarla a chi può ricomprarsela, tanto voi correte così bene, che ve ne fate della macchina? andateci a piedi dove dovete andare. Penso questa frase e mi fermo di colpo.
Nella mia testa quella frase è continuata con “negri di merda”: andateci a piedi dove dovete andare, negri di merda.
Mi sono sentito dirlo dentro la testa e mi sono bloccato, non ho corso più, il senso di colpa m’ha azzoppato le gambe.
Però loro non se l’aspettavano.
Li ho fregati.
Senza volerlo, ma li ho fregati.
Continuano per una decina di metri prima di accorgersi che io sono rimasto indietro, poi frenano anche loro, si voltano, ricominciano a correre verso di me.
Vanno velocissimi adesso, forse hanno sentito l’insulto dentro la mia testa e si sono arrabbiati, però ho ancora dieci metri di vantaggio, posso accelerare, posso provare ad andare a perdifiato e seminarli, ho una possibilità per salvarmi e per salvare pure la macchina, ma lo devo fare subito.
E allora scappo a tutta velocità, dieci, venti, cinquanta, cento metri, poi sento le sabbie mobili dell’acido lattico che mi risalgono la caviglia e mi addormentano i muscoli della coscia con un dolore allo yogurt. Respiro con la bocca tutta aperta, al posto della lingua ho una sciarpa di lana che mi penzola fuori e mi si attorciglia attorno al collo, però sto correndo, corro lo stesso, o forse scappo, non lo so più, so che non reggo la mia stessa velocità, che rallento pure se non vorrei, e che comunque è tutto inutile perché tanto non li ho seminati, sono tutti e due qua, giusto un paio di metri e mi acchiappano, e la macchina è ancora troppo lontana, non ce la posso fare, non ce la faccio, basta, m’hanno preso, m’arrendo.
Prima delle botte mi tolgo le cuffiette, devo provare a parlarci, metti che gli faccio pena, magari mi ammazzano a legnate lo stesso però non si pigliano la macchina, oppure si pigliano la macchina però non mi ammazzano a legnate, chi lo sa, forse sono ragionevoli:
– Sentite…
– Dove Umberto?
– Eh?
– Umberto dove?
Questi non hanno manco il fiatone, io sono in debito d’ossigeno e non ragiono.
– Chi?
– Umberto.
– E chi è Umberto?
– Umberto. Accolliensa, centro.
– L’Umberto I?
– Sì, Umberto, quella.
– L’Umberto I è qua, alla fine di questa strada.
– Quella?
– Questa.
– Quella questa?
– Non si dice quella questa, si dice questa e basta.
– Non vede quella.
– Non si vede perché i lampioni sono rotti, bisogna arrivare alla fine della strada e fare la curva a sinistra.
– Perché tu non dice?
– Io?
– Tu Umberto quella
– Ma non me lo potevate chiedere prima?
– Sempre chiede, ma tu guarda terra.
Lo spavento si mischia alla collera e trovo energie insperate. Riesco pure ad alzare la voce.
– Ma giusto a me che stavo correndo? A me con le cuffiette? Non glielo potevate chiedere a un altro? A uno che passava, a uno che vi sentiva, a Umberto, a chi cavolo volevate voi?
– Qua macchine solo. E tu guarda terra.
– Io guardavo a terra apposta per non darvi la macchina.
– Quella?
– Niente, lasciamo stare.
– Cosa tu guarda terra? Tu guarda quella?
– Ma quella cosa?
– Quella tu perso, perso soldi? Perso telefono?
– Non ho perso niente, a parte i dieci anni di vita che mi avete fatto perdere voi.
– Quindi tu scimunito, quella, sì?
– Ecco, sì, scimunito, esatto.
– Dieci minuti Umberto chiude quella! Tu dai, tu forza corri Umberto quella!
E corriamo all’Umberto I, forza, presto, che se per caso chiude questi due in una notte fanno crepare di infarto tutto il quartiere.