Il bluff di Pif
Dando per scontato che se devi fare un film minchionesco, allora devi fare un sano film minchionesco e non ci devi infilare dentro cose che secondo te lo nobilitano (tipo la storia della mafia in Sicilia) perché altrimenti sei condannato a fare la tipica minchiata dal risvolto social-pensoso, cioè quella attualmente imperante in Italia, cioè quella per cui noi spettatori per non morire si va in America, cioè quella per cui improvvisamente ci siamo accorti tutti che Checco Zalone e i cinepanettoni con Boldi e De Sica alla fine non sono poi tanto male, volevo dire che:
il film di Pif è scarso.
Nel senso che è scarso anche giudicandolo coi parametri del film minchionesco-ambizioso di cui sopra. Perché pure quello lo devi sapere fare con un criterio. E, per dire, Il comandante e la cicogna, può irritare per tutto quell’afflato civico-patriottico, per la paternale sulla decadenza dei costumi e i vari ma in che mondo viviamo, però narrativamente è un bel congegno, i personaggi ci sono tutti, non c’è che dire, e la storia d’Italia sullo sfondo è padroneggiata con la sicurezza dell’intellettuale.
Ecco Pif non è Soldini, e infatti ha sceneggiato (male) una puntata de Il testimone (troppo) lunga.
Peccato, perché con Il testimone, Pif s’è inventato questa specie di Socrate pigro, uno che se lo senti parlare con quella voce indolente da ragazzino viziato ti chiedi come abbia fatto a trovare la forza per alzarsi dal divano e arrivare in India, in America, tra i raeliani o sul set di un film porno italo-slovacco. Ha saputo cioè trasformare se stesso in un personaggio secondo me atavicamente siculo, nella migliore tradizione: un Giufà che pone con candore domande spesso scontate, quelle che chiunque di noi vorrebbe tanto che i giornalisti seri facessero, e che i giornalisti seri invece si vergognano a fare perché gli sembrano ovvie.
Fatte da lui, con quella faccia e quella voce, diventano domande maieutiche: con addosso la maschera di quello che veramente non ne sa nulla (senza cioè il sentito dire che inquina alla radice l’approccio alla conoscenza), la pigrizia, la dabbenaggine, lo stralunamento, gli occhi a pampinedda, il disarmo con cui si consegna agli interlocutori diventano strumenti efficaci nel guadagnargli risposte spontanee.
Il film La mafia uccide solo d’estate è il ribaltamento di questo atteggiamento.
Pif ha deciso che lui sa cos’è la mafia perché è nato a Palermo e adesso ce la spiega con un apologo: Il testimone va da un se stesso prima bambino e poi giovane uomo a farsi spiegare cosa significa vivere nella città simbolo della criminalità organizzata.
Infatti c’è pure la voce narrante fuori campo, come nel programma tv, solo che il meccanismo si sfascia completamente.
Se pigro e indolente può essere l’intervistatore, non può esserlo anche l’intervistato: non c’è frizione, non c’è dialogo vero. Quale dei due Pif è quello che non sa niente della mafia? E quale invece quello che ci vive dentro?
Confusione, stallo totale: se l’intervistatore sa già tutto, l’intervistato non può dare risposte.
Il film non decolla mai. Più passano i minuti e più la sceneggiatura si riempie di buchi: il bambino (un alter ego di Pif, protagonista del film) si fissa con Andreotti la sera in cui, ansioso di consigli paterni per fare la dichiarazione alla compagnetta di scuola, ascolta il presidente del consiglio raccontare in tv la storia di come riuscì a conquistare la moglie.
Un’idea debole: Andreotti come guida sentimentale. Passi.
Ma qual è la saldatura mentale per cui essere fissati con Andreotti (oltretutto in veste di Signorina Cuorinfranti) coincide con l’essere fissati con la mafia? Qual è il legame tra le due cose? Il pensiero mi è venuto al cinema e mi ha ghiacciato il sangue, perché presuppone un atteggiamento molto, troppo, eccessivamente fattoquotidianista: il legame è Andreotti stesso, nel senso che Pif ritiene così scontato che Andreotti sia un boss mafioso da ritenerlo altrettanto scontato per chi guarderà il film. Il bambino ossessionato da Andreotti è dunque ossessionato ipso facto dalla mafia, poiché Andreotti ne è addirittura la personificazione.
Dalle reazioni che ho osservato in sala mi sono reso conto che effettivamente è così: vedere comparire Andreotti sullo schermo per molti equivale a vedere comparire Totò Riina (nel film compare anche lui, ma in forma di macchietta – non l’unica – da Bagaglino: è così stupido che non sa fare funzionare il telecomando del condizionatore).
Diamola per buona, quindi, facciamo pace col fatto che Padellaro ha vinto sul Sorrentino de Il divo e che Pif è il fidanzato della Innocenzi: rimane comunque che l’atteggiamento scettico de Il testimone se n’è bello che andato.
Se Pif sa già tutto (Andreotti è il vertice della mafia, che ci vuole?) e me lo dice pure nei primi minuti del film, dove mi vuole portare col resto della storia? Facile: in nessun posto. L’ultima parte del film è infatti una specie di agiografia (per carità, niente di male: avere eroi civici è un bene), ma molto raffazzonata e anche un po’ noiosa (i filmati di archivio di una qualunque puntata di Giovanni Minoli sovrastano le mini cartoline di questo film).
Presto arriva l’altro passaggio oscuro, il più importante.
Il Pif-bambino è ossessionato da Andreotti in positivo: appende il suo poster in camera, si veste da Andreotti per carnevale (e qui la memoria corre così sparata all’Oreste Lionello del Bagaglino che davvero non ci capisci più niente: non è strano che uno che vuole fare un film di questo tipo citi tanto esplicitamente il Bagaglino? Gli è scappato? Si è tradito? E ora come fa con la fidanzata?). Però è anche ossessionato dalla mafia in negativo: ne ha paura, teme che possa uccidere lui e la sua famiglia, chiede rassicurazioni al padre (Siamo in inverno adesso? La mafia uccide solo in estate).
Com’è ‘sto fatto? Se la figura del mafioso e quella del politico coincidono, come fa il piccolo Pif a essere fan di Andreotti (mafioso, no?) e contemporaneamente a temere e schifare la mafia?
Allora per tutto il film ti aspetti che a un certo punto scoppi lo psicodramma: Pif bambino scoprirà che il suo idolo è in realtà il capo dei suoi nemici. Invece non succede.
Di colpo, il Pif giovane uomo sembra animato da spirito critico, ha velleità da giornalista alla Peppino Impastato, vorrebbe occuparsi di politica e malaffare, e invece finisce a fare una specie di Franco Bracardi in un simil Costanzo Show condotto da tale Jean Pierre (altra macchietta inutile) su una tv locale.
Ecco: quando è successo che il bambino è rimasto deluso da Andreotti e ne ha preso le distanze al punto da maturare una coscienza civile così spiccata? E perché noi non ci siamo accorti di questa conversione, di questo ripudio degli idoli che dovrebbe essere la chiave di tutto il film? Se è questo il nucleo narrativo perché viene affrontato solo per accenni criptici?
Il giudice che salta per aria, il commissario di polizia che una volta gli aveva fatto scoprire le iris con la ricotta (comunque solo a Palermo si dice “le” iris, sul resto dell’isola sono “gli” iris, e non si fanno al forno, se le fai al forno non sono più iris: una rosa è una rosa è una rosa fino a un certo punto) che viene assassinato proprio in quel bar, il delitto Dalla Chiesa e poi le stragi di Capaci e via D’Amelio: la parte interessante, la parte da “testimoniare”, poteva essere questo trauma per cui il piccolo fan di Andreotti si trasforma nel cane da guardia del potere (la DC di Salvo Lima e Vito Ciancimino). Invece di questo non c’è traccia.
Anzi peggio: la compagnetta di scuola torna a Palermo e i due si rincontrano. Lei lavora come ufficio stampa e sta organizzando la campagna elettorale per le europee di Salvo Lima. E qua il Pif- giornalista d’assalto pronuncia una confessione che in una sceneggiatura che avesse un senso sarebbe inconcepibile:
A me della politica, della mafia, di Lima, degli attentati non me ne è mai fregato niente. Ho accettato di fare questo lavoro solo per poterti stare vicino.
Boh. Ma come non gliene è mai fregato niente? A un bambino che come prima parola non pronuncia mamma ma mafia? A uno che ha intervistato Dalla Chiesa quando aveva otto anni? A uno che ha ritagliato giornali per tutta la vita? A uno che ha sognato di diventare giornalista d’inchiesta come il suo vicino di casa? A uno così, che per tutto il film ci ha fatto la storia della mafia a Palermo fritta, in pastella e pure con le patate, non gliene è mai fregato niente?
Forse sì, perché dopo questa battuta mi sono convinto che l’unico momento sincero di tutta la pellicola è stato proprio questo: a Pif non gliene fregava niente di fare un film. Voleva solo girare una scena in cui bacia la Capotondi.