What Would They Say With What Would I Say
C’è in giro un’applicazione divertente che piglia i tuoi status Facebook, li sminuzza e poi li frulla insieme a casaccio, creando uno status nuovo da quelli vecchi. Si chiama What Would I Say e per chi si ritrova a leggere i pasticci che ne vengono fuori, l’effetto è comico (anche se annoia presto). Per chi invece si vede scomporre e poi ricomporre le sue frasi da una macchina, a un certo punto la cosa diventa più dolorosa che umoristica. Spuntano fuori, isolate e quindi anche sincere, le ossessioni, le ripetizioni, i vezzi di scrittura e quelli logici, lo spirito di patata e tutto ciò che con ogni probabilità ti rende odioso agli altri senza che tu te ne accorga.
Inizialmente ti metti a cliccare “Genera status” come un pazzo e ti autocompiaci: ahahaha, com’è spiritoso il mio bot. Ma se insisti, la risata si fa amara, si delinea un autoritratto impietoso: messo di fronte a una specie di specchio rotto che ti frammenta nei vari dettagli, ti accorgi che pezzo per pezzo fai proprio schifo, e che solo lo sforzo di assemblaggio operato dal tuo sguardo (l’hai addestrato per anni e anni a recapitarti un’immagine tollerabile di te stesso) riesce a renderti sopportabile l’idea che a un essere tanto abietto quale tu sei, sia concesso di girare a piede libero per il web. Insomma è come una seduta psicanalitica gratis: quantomeno non devi pagare nessuno per farti diagnosticare una personalità vomitevole, fatta di pensieri scadenti.
A questo punto però, visto che ti sei riempito di mazzate da solo e sei tutto dolorante, cerchi disperatamente qualcosa che ti impedisca di procedere oltre nell’autodafé, e allora ti metti a gironzolare per le bacheche altrui alla ricerca di qualcuno messo peggio. Bene. Ti sfreghi le mani e cominci il tour. L’applicazione impazza ovunque, e nel giro di cinque minuti hai un repertorio di casi clinici che Freud starebbe già salivando. Lo spirito ti si risolleva. Troppo: adesso sei in preda a complessi di superiorità e comincia a farsi strada un pensiero irriverente.
Questi status generati da What Would I Say, alla fine cosa sono? Insalate di parole. Chi le faceva le insalate di parole? I futuristi.
Il futurismo viene classificato dai manuali di letteratura come avanguardia storica. Le avanguardie si considerano storiche quando si esauriscono: un esperimento che per un certo periodo innova, smuove le acque, ma che da un dato momento in poi si conclude, vicolo cieco, si scopre che questa strada non andava in nessun posto. Nessuno più, quindi, nel 2013 dovrebbe comporre testi secondo la tecnica dell’insalata di parole, o del flusso di coscienza modernista alla Joyce, o del nonsense dadaista.
Ma siamo sicuri che sia così? Il pensiero irriverente di cui sopra si fa sempre più bastardo. Facciamo finta che certi libri siano bacheche Facebook. Questo per esempio è Giuseppe Genna, da Fine impero, un libro uscito per Minimum Fax quest’anno, con gran favore di critica e con un discreto successo di pubblico (anche secondo me è un gran bel libro), pagina a caso:
«Rifare al contrario il percorso, da Milano centro verso il Corvetto, aderendo al cemento fino al Camposanto a Chiaravalle, fino alla firma automatica su fogli inutili, in cui si confondono i caratteri stampati, fino ad andare fuori fuoco, i fogli bianchi, quindi, fosforescenti, firmati»
Questo invece è il me stesso generato da What Would I Say su facebook:
«Stamattina un ulteriore effetto: facciamo cadere il sapore dei capelli a costoro, mentre attendono in piedi il bruciore causato dalle visite»
I due periodi, presi così, somigliano entrambi pericolosamente a un verso di Bondi. Ma è chiaro che le parole di Genna hanno un significato deducibile dal contesto (cioè il capitolo, e più ancora il libro, da cui io le ho estratte a forza), e che le mie invece non ne troverebbero uno neanche imbastendogli attorno un’intera cosmogonia: uno è mash up insensato punto e basta, e l’altro è invece uno stile voluto e coerente, lo stile che fa di Fine impero un libro molto originale.
La domanda allora è: perché proprio questo tipo di stile?
Perché serve a spiegare meglio a chi legge ciò che uno ha in testa di dire? Oppure perché serve a puntare il cuore di chi legge, bypassando il cervello, evitando di farlo ragionare su cosa stia davvero accadendo al personaggio, accelerando tutto e facendogli saltare le dinamiche di comprensione, così da catapultarlo dentro un flusso di pensiero e togliersi l’impiccio di descrivere e spiegare?
Mettiamo che sia vera la seconda. In tal caso la domanda sarebbe: ancora? Non era roba da anni ’20 del secolo scorso? Non era storica, quell’avanguardia? A quanto pare no. Quindi vabbè, ci siamo sbagliati, quell’avanguardia non era storica, anzi è così feconda che c’è ancora chi scrive così e ne siamo ancora molto affascinati. Resta il fatto che se le cose stanno in questi termini, allora questa scrittura non è più una novità da un bel pezzo. Al limite è nuova in quanto revival, rifacimento: la si considerava desueta, ma poi è venuto fuori qualcuno che l’ha recuperata. Qualcuno. Cioè uno. Due. Tre. Pochi, insomma. Perché se fossero in molti, sparirebbe pure questo senso di novità, e non saremmo di fronte a un modo di scrivere poi così originale o imprevisto.
E allora piglio un altro libro, abbastanza recente, Veronica Tomassini, Sangue di cane, uscito nel 2011 da Laurana editore e salutato come l’esordio più promettente di quell’anno: Giulio Mozzi lo sponsorizzava molto, candidandolo al premio Strega.
Anche qua stiamo parlando di un’ottima scrittrice, e io non voglio mancare di rispetto a nessuno, solo farmi delle domande oziose.
Bene, pagina 55:
«Ti do ragione, avremmo trovato comunque e in futuro un rosario di nie, non, né, tentennamenti, esitazioni, paraventi fiacchi dietro cui consumare le nostre arringhe, le tue così scarne, simili a un necrologio veramente».
Che ne pensa il mio What Would I Say?
«Qualunque cosa essi dicano è come segare tronchi a petto nudo, con la matita disegnerò sempre le unghie delle percussioni: trascorreranno ere geologiche, e io ancora qui a scriverti».
Diciamo che se mi lasciassi andare, forse riuscirei a essere abbastanza evocativo anch’io.
Mi serve aiuto, sto delirando di superbia. Vediamo se il mio scrittore preferito mi viene in soccorso.
Antonio Pascale (sempre sia lodato) è fissato con la La cura di Franco Battiato: canzone che ci ha ammaliati tutti, facendoci fluttuare privi di peso tra lo spazio e il tempo, ricca di strofe ispirate, che rapiscono e allo stesso tempo spiegano cos’è il vero amore e in cosa differisce da un effimero invaghimento. Questo per esempio è il verso che Pascale cita sempre:
«Tesserò i tuoi capelli come le trame di un canto»
In un bellissimo libro del 2006 (S’è fatta ora, Minimum Fax) il Pascale-personaggio ascoltava questo verso insieme a una comitiva di donne amiche sue, rese languide dalle parole di Battiato. Tale languore innescava nel Pascale-personaggio un ragionamento, un po’ nevrotico e un po’ lucido, che lo portava a elaborare una teoria estetica della manutenzione che personalmente mi sento di sottoscrivere: senti, io non lo so bene come si tessono le trame di un canto, non te lo posso promettere che mi prenderò cura di te in questo modo, però ti posso dire aspetta, hai una cosa in mezzo ai capelli, stai ferma un secondo che te la tolgo.
Forse non è altrettanto poetico, però è senz’altro più comprensibile.
Traggo un ultimo esempio da un altro libro (ribadisco che considero quelli che ho citato tutti bei libri, e i loro autori ottimi scrittori, con una poetica interna che ne giustifica lo stile: libri che è stato piacevole e utile leggere, e che consiglio di leggere a chi non li ha letti).
Viola Di Grado, Settanta acrilico, trenta lana, uscito per e/o, sempre nel 2011, ebbe recensioni entusiaste e autorevoli sostenitori (anche qui ci fu chi disse che se non avesse vinto lo Strega, si sarebbe finalmente potuto dire con certezza che lo Strega è un premio truccato). Ecco una pagina a caso, proprio come farebbe What Would I Say:
«Quella lì che è già notte, ed è già fine, anche se tu volevi una storia in cui tutto è del suono giusto e del colore giusto, e le farfalle volano, e le persone parlano e amano e parlano e amano».
E questo invece sono io WhatWouldISayizzato:
«Le sei si protraggono fino a notte fonda, quando puntualmente nell’ultima partita si raggrumano le banderillas».
Una frase che, in mezzo a un libro di Di Grado, forse non insospettirebbe più di tanto.
Perché se li considero tutti bei libri ho scritto un post sfottente come questo? Aspe’, questa qua la so, me la sono preparata bene: perché scrivendo questo post mi sono comportato un po’ come What Would I Say. Nel senso che non sapevo cosa volevo dire, però l’ho detto lo stesso. E questo ha un po’ di attinenza anche con le frasi degli autori che ho citato.
Ho preso per scherzo qualche brano di bravi autori, cioè di persone che per mestiere o per arte si interrogano sulle parole e sulla loro sintassi, e m’è venuto il sospetto che certi accostamenti di termini (che chi legge finisce per trovare evocativi) possano essere in realtà molto “economici” dal punto di vista compositivo: mi abbandono alle figurazioni che mi si aprono in mente e lascio che trasmettano, più che un pensiero, uno stato d’animo.
Mi sono cioè domandato: non è che costa poco, in termini di fatica, questo modo di comunicare? Senza nulla volere togliere alla riuscita estetica dell’operazione, non è che dietro una frase così c’è poco progetto e tanto abbandono? Se davvero a qualcuno preme comunicare un suo pensiero, davvero può affidarlo in sicurezza a costrutti così passibili di interpretazioni arbitrarie? Non è allora che più che un pensiero, ciò che frasi di quel tipo tentano di far passare sono in realtà le esperienze di vita di qualcuno, rese tramite le tonalità emotive di chi le ha attraversate? E se è così: questi libri sono utili, oltre a essere belli? Oppure è già il semplice fatto di essere belli a renderli utili?
Che poi io ne ho scelti tre (con Battiato sarebbero quattro, ma lui scrive canzoni, e che canzoni, e in una canzone secondo me il discorso si fa ancora più complicato), però veramente potevo aprire la pagina di un autore qualunque (per esempio ho evitato di sparare sulla croce rossa e prendere uno degli ultimi Erri De Luca), anche dei miei preferiti (sì, pure di Pascale o Piccolo), perché la tentazione della bella frase un po’ folle ce l’hanno tutti, e prima o poi una gli scappa anche a chi ha una vescica di ferro: l’autocontrollo totale, specie in un romanzo, non è umano, ed è bene che sia così, perché certi squarci di lirismo aiutano, fanno stare meglio chi li scrive e chi li legge, sublimano certi sentimenti e li rendono immediatamente conoscibili.
Sempre rifacendomi ad Antonio Pascale, però, voglio finire in bellezza, e citare uno che What Would I Say potrebbe smandrappare quanto vuole, senza riuscire a intaccargli la logica di una virgola: Platone.
All’inizio del Gorgia (Gorgia abitava delle mie parti, Sicilia orientale, Lentini, tra Siracusa e Catania, come Battiato, Di Grado e Tomassini: si vede che qua ce l’abbiamo un po’ a vizio), Socrate cerca un accordo preliminare col suo interlocutore: sì, Gorgia, adesso io e te ci facciamo una bella chiacchierata, però per favore tu non fare al solito tuo, asciuga un poco, perché altrimenti io mi confondo e non ci capisco più niente:
«Allora, Gorgia, vorresti continuare a discorrere mediante domanda e risposta, così come facciamo ora e rimandare i tuoi lunghi discorsi ad altra volta? Guarda però di non venire meno a ciò che hai promesso, e cerca di rispondere brevemente a ciò che ti viene domandato[…]»
Gorgia dice di sì, promette come un boy scout, ma Socrate è tosto e non si fida, insiste:
«Dammi dunque prova di questa tua abilità nel rispondere in poche parole: della tua abilità nel fare lunghi discorsi, poi, mi darai prova un’altra volta».
Ecco, a me, come a Gorgia, piacciono i lunghi discorsi (in fondo per descrivere a pieno questo blog basta un solo aggettivo: prolisso), e mi piacciono anche i periodi complessi, gli accostamenti d’immagine e gli aggettivi fantasiosi.
Però mi piacerebbe anche che a un certo punto del suo libro, lo scrittore, qualunque sia il suo stile, si facesse prendere dalla stessa cortesia che Gorgia vuole usare a Socrate, e in una pagina a piacere, dove gli sembra più opportuno, alternasse per qualche pagina il registro e usasse per il suo lettore frasi brevi, esposizione essenziale, lingua media, dandogli modo di ricapitolare un poco i fatti. Altrimenti io, che già non sono certo Socrate, mi confondo. E poi quando chiudo il libro mi chiedo se davvero era utile, oltre che bella, l’arte che ho ammirato.