Dall’ora legale a quella solare e da Palermo a Siracusa
Sono le sei di sera, e per colpa dell’ora solare si avverte una sensazione come di mezzanotte passata, che prostra i corpi, ottunde le menti, deprime lo spirito.
Dentro al pullman, il corridoio stretto, le luci deboli che cadono dal tetto e quelle un po’ più forti che entrano dalla strada creano la stessa penombra di quando a casa ti svegli per fare pipì e arrivi in bagno a tentoni perché non trovi l’interruttore.
Il pullman sembra pieno, ma in realtà è pieno a metà perché ognuno s’è seduto occupando due posti: uno col culo e l’altro con dispositivi elettronici e generi di conforto. Sono i nuovi designer, intrisi di ergonomia e minimalismo, ad averci assegnato poco spazio pro capite su ogni sedile? O sono le nostre propaggini (gli oggetti che ormai ci accompagnano ovunque, sempre più piccoli ma sempre più numerosi) a richiederci l’espansione sui territori limitrofi?
Trovo l’ultimo dei doppi posti liberi e ci scarico sopra lo zaino, poi mi affloscio sul lato del corridoio, anche se, potendo, preferirei quello finestrino.
Preferire è un verbo usato a sproposito, perché in realtà detesto entrambi i rami del dilemma: se mi metto sul lato finestrino, viaggerò angosciato dal pensiero che in caso di pericolo qualcuno mi sbarrerà la strada verso la salvezza, se invece sono sul lato corridoio, la visuale chiusa su entrambi i lati mi darà claustrofobia (che nel mio caso si traduce in secchezza delle fauci) per l’intera durata del percorso.
Comunque in questo caso non ho scelta perché quello davanti a me si è piazzato sul lato finestrino e ha sdraiato il sedile.
Sdraiare il sedile è un crimine contro la comodità: chi lo commette, dovrebbe viaggiare nella stiva insieme ai bagagli. Non è solo un gesto scortese, è un atto di vandalismo che deturpa il paesaggio: la geometrica disposizione in filari delle nostre teste, così ben allineate in questo giardino dell’Eden semovente, messa a soqquadro dall’azione anarchica di un antieuclideo: inclinare il piano, una bestemmia. È molto più che semplice eversione: è peccare di una superbia titanica, volersi sostituire a Dio o alla Natura, essere Prometeo e rubare il fuoco, essere Eva e farsi una scorpacciata di mele. Solo chi non ha niente da perdere può essere tanto ardito. O forse solo uno che alle elementari non aveva il sussidiario e adesso non si accorge di quanto pericolosamente somigli la sua testa alla pallina dell’illustrazione, quella sempre in procinto di rotolare.
Incoscienza o ignoranza che sia, se sdrai il sedile, obblighi me che ti sto alle spalle a guardarti di profilo. E le tavole della legge dicono che è empio guardarsi in faccia su un pullman.
Qua, a parte il momento iniziale in cui ci si sceglie il posto (o quello in cui lo si è già scelto e si assiste con sadismo all’incedere smarrito degli altri passeggeri alla ricerca del loro) tra noi trasportati possiamo e dobbiamo guardarci solo da dietro: non è previsto altro accoppiamento visivo al di fuori di quello more ferarum. Vedremo al massimo la nuca di chi ci sta davanti e qualche scampolo che cola via per sbaglio dalla rigida inquadratura impostaci dal sedile: di solito, una mano. Qualcuno che si addormenta e l’arto che gli scivola giù lungo bracciolo, iniziando a pencolare nel vuoto: un tipico fotogramma da film horror. Nella scena seguente, il passeggero raccoglierà da terra un oggetto caduto all’addormentato, si alzerà per restituirglielo, dirà mi scusi signore le è caduto quest e si accorgerà che quello è un morto in via di decomposizione. Il campo si allargherà e il protagonista si renderà conto di stare viaggiando su un pullman di zombie putrefatti. E allora correrà in cima al convoglio per chiedere aiuto all’autista. Che però sarà a sua volta uno scheletro in divisa e berretto blu che ripete biglietto, prego tra risa sataniche.
Mi sveglio. L’effetto notte creato dall’ora solare ci ha fatto chiudere gli occhi, ma va e viene a intermittenza. Già dopo due chilometri eravamo sbracati sui sedili come se fosse stata l’ora della ninna, e veramente adesso sembra di avere varcato la soglia di un mondo a parte, con una scansione del tempo tutta sua, come succede dentro gli ospedali o i monasteri o le case di riposo per anziani: posti in cui le sei di pomeriggio interne non corrispondono alle sei di pomeriggio dei sani, dei laici, dei giovani.
Siamo su questa bolla viaggiante che ci trasporterà da occidente a oriente nello spazio e dal pomeriggio alla notte nel tempo, e forse è l’essere sospesi a rendere tollerabile questa luce da limbo, con i piccoli fuochi fatui dei display che si accendono, improvvisi e a macchie, e dopo un po’ si spengono per riaccendersi da qualche altra parte, rischiarando un sedile, riflettendosi su un finestrino, scontrandosi con gli anabbaglianti di un veicolo incrociato sull’altra corsia.
Eppure mi piacerebbe poter vedere in faccia la gente che viaggia con me su questo pullman: qualcosa in comune dobbiamo averla per forza, visto che siamo partiti tutti insieme, allo stesso orario e per andare nella stessa direzione. Una motivazione che noi non conosciamo, a un livello superiore di finalità che ci è precluso attingere, deve aver stretto i nostri fili insieme: da qualche parte sopra di noi ci sarà un bambino che ha caricato le molle di questo pullman giocattolo, e ora si gode il rilascio per inerzia, ammira soddisfatto il procedere dei suoi pupazzetti in linea retta sul pavimento, una, due, tre, quattro mattonelle, da Palermo a Siracusa.
Il pullman ferma a Sacchitello, ma anche il parcheggio è in penombra. È solo dentro all’autogrill che riesco a vedere per la prima volta i miei compagni di viaggio a figura intera. È una luce da sala operatoria, a riceverla sugli occhi si prova fastidio: una specie di risveglio da un’anestesia. Ci svergogna tutti: impietosa, sorprende i lembi di camicia fuori dai pantaloni, le briciole di panino rimaste impigliate sui golf, i segni del poggiatesta sulla faccia di chi è effettivamente riuscito a dormire, gli abiti sgualciti dalla posizione stravaccata assunta sul sedile.
Non c’è niente da fare, ogni viaggio in pullman somiglia in qualche modo a una deportazione, e l’umanità che viaggia a bordo dei pullman trasmette sempre un senso di pena mista a repulsione: uccideteci subito o vi spezzeremo il cuore.
Io corro in bagno per cercare di darmi un contegno: mi fermo davanti alla specchio e mi rassetto con tutta la cura che di solito non metto quando mi appresto a uscire di casa. Ravvio i capelli, sciacquo bene la faccia, sistemo il colletto della camicia e tiro su i pantaloni. Solo quando distolgo lo sguardo dallo specchio mi accorgo che accanto a me ci sono tutti i miei compagni di viaggio intenti a fare le mie stesse mosse. Continuo a sentirmi loro fratello e contemporaneamente a pensare che farei qualunque cosa pur di non somigliargli. Ne fermo uno a caso e gli dico: lei non lo sa, ma fuori di qui c’è il mio chauffeur che mi aspetta sulla Rolls. Abbiamo fatto una sosta in autogrill solo perché avevamo finito i Ferrero Rocher. Le piacciono? Venga, che le do un passaggio.
Invece esco dal bagno e mi metto in coda alla cassa per pagare la mezza minerale frizzante, dietro a tutti loro, che sono stati più svelti. Continuo a lisciarmi con le mani le pieghe della camicia e mentre sono lì in piedi mi coglie un’umiliante epifania: l’elastico di uno dei calzini ha ceduto e mi si è arrotolato così in basso che adesso ce l’ho sotto al tallone. Uno tra i fastidi più irritanti al mondo, che ha qui l’aggravante di farmi sentire ciò che in questo preciso istante sto lottando con tutte le mie forze per non essere: uno sciatto viaggiatore di pullman in sosta all’area di servizio. Trattengo l’istinto di slacciare la scarpa e sollevare il calzino perché significherebbe ammettere la bassezza della mia estrazione di fronte al tizio cui avevo offerto il passaggio sulla Rolls.
L’orlo dei pantaloni per fortuna cade abbastanza lungo da celare questo obbrobrio, ma il pensiero di essere in quello stato mi precipita in un autodafé da autogrill: perché non ho comprato dei calzini nuovi prima di mettermi in viaggio? E se tanto mi dà tanto, in che condizioni saranno allora le mie mutande? Ancora bianche? O i ripetuti lavaggi ne avranno consunto il candore fino a quel grigio triste? Mettiamo che questo pullman precipiti da un viadotto o si schianti contro un pilone dell’autostrada – in fondo capita di continuo – in che condizioni troveranno la mia biancheria intima i miei primi soccorritori? Che diranno di me i portantini dell’ambulanza, gli infermieri dell’ospedale, i rianimatori della terapia intensiva? Forse sarebbe il caso di tornare in bagno e togliersi tutto: meglio apparire estroso che disordinato. Se non altro i miei cari potranno approntare delle scuse: sapete, non portava mutande e calzini per scelta, aveva un temperamento d’artista, la sua era una forma di situazionismo.
Quando risalgo a bordo, la penombra fa un altro effetto, nell’abitacolo si respira un’atmosfera come di riparo. È tutto meno triste e meno misterioso, la luce fioca delle lampade e dei display fa un calore ostile ma efficace, come immagino debba essere il fuoco dei copertoni per le nigeriane.
Il pullman riprende a camminare e noto che un sacco di gente si sta slacciando le scarpe, che poi è la cosa che ho appena finito di fare io. Siamo almeno in tre a tirarci su di nuovo i calzini fino al polpaccio e poi, quasi all’unisono, a sospirare di sollievo.
E allora penso che siamo creature commoventi, coi nostri tentativi di apparire un po’ migliori di come siamo, la nostra maldestra tensione verso la dignità: facciamo, col sorriso in faccia e sotto una luce crudele, sforzi da ballerina che massacrano le punte e fanno scivolare giù i calzini. Senza sapere che è solo quando siamo al buio, convinti che nessuno ci guardi, che diventiamo davvero belli.