Il carcere non serve a niente
Senza volere (né potere) stare a spiegare niente a nessuno, quel poco che penso di avere capito sul carcere.
Anche se un po’ a singhiozzo, ho insegnato per quasi un anno in una casa circondariale.
Non una delle peggiori, nel senso di non una di quelle iper affollate (ma comunque affollata), assolutamente non fatiscente (ma umida e fredda d’inverno e soffocante d’estate), non obsoleta (fu edificata abbastanza di recente, dopo il terremoto del ’90, per sostituire il carcere borbonico in cui ancora, fino a quella data e oltre, venivano ospitati i detenuti della mia città) e molto, molto lontana dal centro abitato (cosa che rende assai complicate le visite e i colloqui coi familiari).
Le sensazioni che mi porto dietro di quel periodo sono due.
La prima è che in carcere ci lavora un sacco di gente bravissima a fare il lavoro che fa. Educatori (spesso educatrici), psicologi, insegnanti, direttori, amministratori e anche guardie: si respirava un’aria di professionalità che era impossibile da ignorare.
Questa, col tempo, ha finito per contagiare pure me, per cui sento di aver capito da dove spira: in parte, com’è ovvio, viene dal fatto che quelle persone sono appunto dei professionisti ben preparati al loro (delicato) lavoro, ma in parte viene anche dal fatto che la professionalità ti aiuta a mantenere un filtro personale alto.
L’attività che svolgi là dentro è molto coinvolgente sul piano emotivo. Quando dico molto intendo dire: assai. E non per qualche animella sensibile: per tutti, pure per gli stronzi. Allora a un certo punto hai bisogno per forza di raccontartela: mi coinvolgo emotivamente perché questo coinvolgimento è parte essenziale del mio lavoro, se mancasse non sarei un buon professionista.
In pratica, dentro un carcere sei costretto per varie ragioni ad abbassare di parecchi gradi lo schermo di protezione: se come nel mio caso sei un insegnante, ti ritrovi a insegnare a gente della tua stessa età, con cui è più semplice interagire “alla pari” rispetto a quando sei in una classe di undicenni, in cui devi necessariamente rappresentare il ruolo di un adulto (almeno se da quella classe di undicenni intendi uscire vivo). Se però non vuoi pagare costi personali troppo alti, devi imparare ad accenderti e spegnerti a comando: dentro on, fuori off. Un po’ come immagino accada ai medici, a quelli delle pompe funebri e a un sacco di altre categorie professionali che per lavoro toccano con le mani la sofferenza della gente.
Immediatamente collegata a questa prima sensazione c’è quella dello spreco.
Le energie profuse là dentro sono abbastanza inutili: arginano un’onda che la mattina dopo rimonta uguale a prima. Una fatica necessaria a non affogare, ma una fatica di Sisifo. Il macigno di inutilità che questa gente ogni giorno tira su per la salita è l’inutilità intrinseca del carcere.
Il carcere non serve a niente.
Non tirerò in ballo le opinioni di giuristi molto insigni o di grandi sociologi, tutti concordi nell’affermare che, così com’è concepito in Italia, il carcere sia uno strumento privo di efficacia (le trovate ovunque), ma riferirò una cosa che a me ha colpito da subito e che però non sento dire quasi mai.
L’aspetto punitivo del carcere, quello che ci fa vedere come un castigo (per alcuni addirittura giusto, o meritato) la permanenza in una piccola cella di molte persone, con poco o nessuno spazio vitale a disposizione e zero privacy è ciò che a primo impatto più sconvolge chiunque ne visiti uno.
Se non ci siete mai stati, pensate se qualcuno vi dicesse che da domani dovrete defecare davanti a dodici persone, nella stessa stanza dove mangiate e dormite, se siete fortunati separati da una tenda: e che dentro a quello stesso bagno in cui defecate in dodici, poi dovrete lavarci le stoviglie, la biancheria e pure voi stessi. Ecco, pensate solo a questo, cioè all’impossibilità di avere a disposizione momenti di personale e necessaria solitudine per tutto il tempo della vostra pena e avrete un’idea dell’inumanità di quella condizione. Ci siamo? Ci state pensando? Vi state sentendo inumani? Vi sentite ridotti un po’ a bestie? Ecco, ora vi dico un’altra cosa: in molti casi non è neanche una punizione. Quindi come punizione oltre a essere inumana è pure inutile.
Alcuni dei miei studenti neanche se ne accorgevano. Lo sapete perché? In quelle condizioni ci vivono da che sono nati. Abitano in un basso o in un piccolo appartamento di qualche casermone popolare insieme a non so quanti fratelli, sorelle, zie, nipoti e cugini. A noi sembra di punirli, a loro pare normale. Quindi pure se pensate che punire qualcuno sia utile per rieducarlo (e lasciamo perdere se questa della privazione della privacy sia una punizione sensata o piuttosto una tortura) sappiate che non lo stiamo punendo. Per alcuni è perfino un miglioramento dormire su un letto, perché magari a casa dormiva per terra. La cosa inaccettabile, la cosa che rende il carcere inutile, sono le condizioni di partenza, quelle che portano qualcuno a finire dentro un carcere: le carceri continueranno a essere piene di gente che anche fuori dal carcere vive più o meno come in un carcere. E qua veniamo all’amnistia.
Ce ne fu una nel 2006. Io all’epoca insegnavo in una scuolaccia.
Le scuole “difficili” per un insegnante sono assai peggio del carcere: adolescenti ingestibili ti costringono a un ruolo a metà tra l’assistente sociale, il poliziotto e la dama di compagnia, che con l’insegnamento di una qualunque disciplina ha pochissimo, se non nulla, a che vedere (in carcere invece hai di fronte gente che fondamentalmente si annoia molto, e vede la lezione come un diversivo, una cosa su cui impegnare la testa, vuoi anche solo per distrarsi, quindi insomma, in un carcere insegni molto più che in certe scuole).
Parecchi studenti di questa scuolaccia in cui facevo il supplente nel 2006 avevano a che vedere col carcere in cui avrei insegnato qualche anno dopo, nel senso che dentro quel carcere c’era un fratello, un papà, un parente. Inevitabilmente, questa cosa del carcere saltava fuori nei colloqui coi genitori o coi ragazzi stessi (colloqui che per me erano sempre fonte di notevole apprensione: occorrono parecchia cautela e diplomazia per uscirne illesi, e anche una certa dose di sprezzo del pericolo e devo dire che risiedere ed essere cresciuto in un quartiere popolare mi aiutava a comprendere certi linguaggi e a leggere certe situazioni).
Posso quindi riferire per diretta testimonianza quale fu la reazione all’amnistia del 2006 di molti (per molti intendo: quasi tutti) familiari di chi aveva qualcuno in carcere: la accolsero come una specie di sventura. Giovane o anziano che fosse il detenuto prossimo alla scarcerazione , in famiglia si poneva il problema di dove piazzarlo: case, come ho già detto, strapiene, in cui magari da qualche anno ci si era finalmente allargati un poco. E poi il pensiero di dover fare la spesa per un’altra persona, una persona in più a consumare elettricità, gas, telefono, benzina. Finché era in carcere, era uno in meno di cui doversi occupare. Ora dove lo mettiamo?
In famiglie che ristagnano perennemente in questo bilico di saturazione, in case, quartieri, ghetti in cui la carcerazione è quotidiana, ha senso mandare qualcuno in carcere? Veramente occorre ancora un dibattito pubblico per decidere qualcosa su questo tema che anche per uno come me, che il carcere lo ha bazzicato con un contratto a progetto per meno di un anno, è risultato subito evidente?
Per quel poco che ho visto io, tutto ciò che c’è da fare per le carceri italiane va fatto fuori dalle carceri italiane. Tutto ciò che può essere di giovamento per le carceri italiane riguarda i posti in cui le persone che statisticamente affollano più le carceri vivono quando non sono in carcere. Questo ovviamente riguarda sia gli italiani che gli extracomunitari (che guarda caso vivono anche loro in tanti dentro stanze minuscole e senza i requisiti minimi di civilizzazione). Interi quartieri delle mie parti sono ghetti in cui l’osmosi tra dentro e fuori è appunto un fenomeno naturale. E per chi abita lì, un contenitore vale praticamente l’altro.
Come ultimo, spero razionale, spiraglio racconto questa piccola esperienza personale.
Vivo, come ho accennato, in una zona un tempo molto popolare, oggi sempre più in via di gentrification. Un mio coetaneo con cui giocavo da bambino e con cui ho fatto le elementari, alle medie era già in odore di riformatorio. Aveva smesso di giocare con me e con gli altri miei amici perché eravamo gli sticchiusi (in continente: fighetti) della zona, e tutt’al più ogni tanto veniva insieme ai suoi amici a darci una gran fraccata di legnate. Così, per divertirsi un poco. Al posto nostro, frequentava quegli altri, i suoi compagni di scuola delle medie, che erano diversi dai miei, ed erano proprio di un’altra scuola.
A un certo punto, sempre per motivi di carcere e altre misure punitive subite dalla sua famiglia, andò ad abitare con la nonna, che aveva casa molto più vicino alla mia scuola media che alla sua. La nonna lo fece trasferire nella mia scuola, in una classe diversa, ma molto simile in quanto a individui di cui era composta. Di tutto il giro di malacarni che aveva preso a frequentare, oggi, lui è l’unico che non solo non è finito in galera, ma si è prima diplomato allo scientifico e poi laureato in ingegneria edile.
C’è un detto nella mia città che recita (i miei compaesani perdoneranno la traduzione approssimata): cammina con chi è meglio di te a costo di rimetterci le spese. È la chiave di tutto. Creare ghetti serve solo a creare altri ghetti. Servono condizioni di partenza uguali per tutti, e serve che tutti abbiano la possibilità di vivere una vita migliore di quella vissuta dai propri padri. A quel punto le carceri saranno sempre più vuote, e ci sarà spazio per farle diventare davvero centri di rieducazione e non “case circondariali” che separano dal resto della società chi in condizioni di separatezza c’è già nato.
PS 1: Se state pensando che questo valga per i poveri disgraziati e non per i delinquenti ricchi, e che a quelli invece un poco di gattabuia farebbe bene, andate a vedere The Bling Ring, l’ultimo film di Sofia Coppola.
È raggelante come fu raggelante un libro che quelli della mia generazione si ricordano di sicuro Meno di zero, di Bret Easton Ellis (anzi forse il vuoto qui si avverte ancora di più). E alla fine dimostra una cosa paradossale: è dentro il carcere che la ladra ragazzina che aveva per idolo la vittima dei suoi stessi furti (Lindsay Lohan) a un certo punto incontra la sua attrice preferita. Il carcere dei vip è un ghetto come un altro: vip scompensati incontrano fan scompensati. Pensate che la cosa li aiuti a uscire fuori da lì meno scompensati?
PS 2: Un libro che ha il dono di essere contemporaneamente bello e istruttivo sul carcere è uscito da Einaudi l’anno scorso, si chiama Dentro e l’ha scritto Sandro Bonvissuto.
Oltre al fatto che nella sua prima parte parla esplicitamente della condizione di un detenuto, è molto ben riuscito proprio perché nelle altre parla di chi era quella persona prima di diventare un detenuto: altri due momenti della sua vita, fotografati separatamente. Pur essendo composto tre racconti a sé stanti, Dentro è quindi molto più romanzo di molti altri romanzi. Qui di seguito un breve estratto:
C’era un uomo lì dentro che tutti i giorni, all’ora d’aria, usciva con gli altri in cortile, lo attraversava interamente e arrivava, camminando a passi lenti, fin sotto il muro di cinta, ma talmente sotto che riusciva a toccarlo col naso. Per guardarlo così da vicino da non vederlo più. Una volta l’avevo fatto anch’io. Ero arrivato talmente sotto il muro da perdere la visione laterale degli occhi. Talmente sotto il muro da vederne solo il colore. Compresi allora la seguente cosa: il muro è il più spaventoso strumento di violenza esistente. Non si è mai evoluto, perché è nato già perfetto. E ti accorgi di tutta la sua potenza soltanto quando vedi un muro in funzione. Perché non tutti i muri funzionano; quelli che incontriamo nella vita di tutti i giorni, ad esempio non sono veri muri. Sono interrotti, oppure hanno delle porte, insomma si possono in qualche modo aggirare, attraversare. È come se fossero degli ordigni disinnescati. Dei muri a salve. Quelli che stanno lì dentro no. Funzionano. E bene. Non c’è niente che ti uccide come un muro. Il muro fa il paio con delle ossessioni interne, cose umane, antiche come la paura. Nonostante le apparenze, il muro non è fatto per agire sul tuo corpo; se non lo tocchi, lui non ti tocca. È concepito per agire sulla coscienza. Perché il muro non è una cosa che fa male; è un’idea che fa male. Ti distrugge senza nemmeno sfiorarti.
Lì dentro ho visto anche gente piangere davanti ai muri, davanti alla caparbia ostilità della materia. Perché, se funzionano, i muri sono tutti muri del pianto. Stanno lì. Mille volte li guardi e mille volte li vedi fermi. Non hanno incertezze. Non hanno volto. Non hanno sentire. Non serve una mano malvagia che li muova. Fanno male da soli. Ed è inutile farci amicizia; se li tocchi, le tue dita non lasciano segno su quella materia. Il muro di recinzione è certo una cosa ostile all’umanità. E costruire un muro è fare una cosa contro. Perché ormai è chiaro che i muri non possono essere a favore. E purtroppo non esistono muri fatti contro qualcosa, perché i muri sono fatti sempre contro qualcuno, contro gli esseri viventi. Quando costruite un muro dovete saperlo che sarà certamente contro qualcuno, anche se non sapete contro chi. Bisognerebbe rifiutarsi di costruire muri di cinta. Anche se ci pagassero.
(Dentro, Sandro Bonvissuto, Einaudi, Torino, 2012. Pgg. 35- 36)