Coriolis mon amour
Quella mattina capitò uno di quegli eventi cui l’umanità assiste assai di rado ma tuttavia a cadenza regolare, come la cometa di Halley. Il tappo del bidet si era bloccato in quella posizione di non ritorno da cui è impossibile stupparlo. Puoi chiamare i pompieri col flex, i ghostbuster con l’idraulico liquido, niente: un incastro che tanto più è odioso e tanto più risulta indissolubile, tipo il matrimonio. Per poter ripristinare lo scarico, il bidet andava praticamente divelto: minimo ci voleva una carica di tritolo.
Per tutta la giornata non fu capace di concentrazione. La testa se ne andava là, a escogitare stratagemmi per lo stuppaggio. Lavorava in ufficio ma si distraeva subito, immaginando una chewing gum collosissima, così collosa da poter aderire alla superficie del tappo come fosse attak. Un bastoncino per tirarlo su, e via. Che alzata d’ingegno. «Peccato che le chewing gum in acqua non attaccano, bestia», gli disse un collega.
Ai colleghi di tutti i lavori gli si cronicizza il sadismo, quando possono svilire le idee altrui e farle apparire demenziali ci godono un sacco. Effettivamente spesso hanno pure ragione. Però non succede mai che gli dispiaccia di avere ragione e svegliarti dal tuo sogno a occhi aperti, anzi. Gli piace accorgersi che tu pensi, va bene, ma che pensi? Pensi minchiate. Che poi loro non sanno pensare manco quelle, ma appena ne sentono una, non vedono l’ora di smascherarla.
Lui comunque aveva il tappo del bidet incastrato, e stava facendo brainstorming. Che ne sapeva quello stronzo di un collega del brainstorming? E poi belle le critiche, sì, ma non stuppano niente. Allora una super ventosa, di quelle grandi, che creano vuoti d’aria e risucchi potenti: avrebbe aspirato via il tappo come un ciclone.
Scese in strada a cercare un ferramenta. Il primo non vendeva ventose. Il secondo gli chiese cos’era una ventosa. Il terzo gli disse che si chiamano “stuppalavandino”. Lui obiettò che si trattava di un bidet, ma quello rispose che è uguale, si chiamano lo stesso stuppalavandino per una questione di decenza. Comunque non ce l’aveva. Al quarto si attenne al consiglio sulla decenza e chiese uno stuppalavandino. Ma siccome temeva che quell’eufemismo potesse causare imprecisione e risolversi nell’acquisto di un oggetto inadeguato allo scopo, all’ultimo secondo se ne pentì, chiamò il commesso, e con gli occhi bassi confessò: «aspetti, le ho mentito. Non devo stuppare un lavandino». E poi – in preda a profondo senso di vergogna: «devo stuppare un bidet». Il commesso neanche si girò. Gli rispose da dietro le spalle: «non ha importanza, si chiamano così per decenza, ma stuppano qualunque sanitario». Tornò con una ventosa che era l’ombra di quella che lui aveva immaginato. Un oggetto minuscolo, dal diametro infinitesimale. Colpa dell’ansia, si disse. La sua immaginazione doveva avere ingigantito il bidet fino a farne un lago in cui ci sguazzavano i draghi.
«Non ne avete di più grandi?»
«No, sono universali, taglia unica, vedrà che andrà bene».
Se lo diceva il commesso. Uscì dal negozio sentendosi comunque ridicolo. Guardò un’ultima volta la ventosa prima di infilarla dentro la busta e pensò: qua mi tocca fare la campagna di Russia con le scarpe di cartone. Ritornò in ufficio, si sedette alla scrivania e provò a lavorare. Dopo neanche un minuto alzò gli occhi dalla circolare e tolse di nuovo dalla busta la ventosa appena acquistata. La posò sulla scrivania. Allontanò la sedia e la guardò con attenzione, da una distanza meno ravvicinata. Ora che si trovava inserita in un contesto, le proporzioni erano inequivocabili: pareva una sorpresa dell’ovetto kinder per quanto era piccola. Fu una dolorosa epifania. Si precipitò dal collega con la ventosa in mano e gli chiese a bruciapelo: «dimmi un po’, tu, come si chiama quest’affare?» Quello la prese e la studiò sotto diverse angolazioni: era arancione. Il manico era tozzo e zigrinato, per favorire l’impugnatura. La plastica della ventosa vera e propria, invece, era nera. L’oggetto aveva gli stessi colori degli attrezzi adoperati dagli operai dell’Anas in autostrada. Solo che le dimensioni erano quelle dei Playmobil.
«È uno stuppalavandino, non c’è dubbio».
«Bravo».
«T’hanno amprusato».
«Come m’hanno amprusato? Perché?»
«Non dovevi stuppare un bidet, tu?»
«Li chiamano stuppalavandini, ma stuppano la qualunque»
«Sì, certo, come no, per una questione di decenza, vero?»
«Esatto. La taglia è unica.»
«Lo dicono quando hanno finito quelli grandi, altrimenti questi piccoli non li compra nessuno»
«Quindi m’hanno amprusato?»
«È un giocattolino, non lo vedi? Con questo gli fai il solletico».
Quale comandamento aveva trasgredito? Per cosa veniva punito quel giorno? Perché il tappo del bidet aveva voluto incastrarsi? Perché i ferramenta cospiravano per non vendergli l’attrezzo risolutivo? Chi era in realtà quel collega? Un infiltrato? Una spia? Era dalla sua parte o da quella del bidet? Di chi poteva fidarsi?
Tornò alla scrivania e scrisse di getto un’invettiva:
«Contro la pruderie dei ferramenta».
Le parole devono essere esatte, cominciò. Non bisogna avere paura di risultare tecnici o pedanti, non bisogna temere neanche la volgarità, se è il caso. Specie se si fanno mestieri di precisione, come voi, ferramenta. Un lavandino non è un bidet. Gli eufemismi possono nuocerci. Le metafore nasconderci la vera natura del problema. Non fate che il popolo perda la stima per voi, o ferramenta. E poi spiegatemi cosa c’è di indecente nella parola bidet. È un francesismo. Il francese è la lingua dei salotti. E noi addirittura la usiamo in bagno. Lo vedete quanto siamo decenti? Forse pure troppo. Che i francesi alla fine il bidet manco ce l’hanno. E poi, se il punto è la decenza, allora perché chiamate una ventosa stuppa? Non è contraddittorio ritenere il francese indecente e il dialetto decente? Bisogna essere precisi. La ventosa è una ventosa. Stuppare è un verbo. La ventosa stuppa. La ventosa è l’agente, lo stuppare è l’azione. Perché semplificate? Perché li fate coincidere? E perché ci associate anche l’oggetto: lavandino? Una ventosa è un agente che può agire su più oggetti: non stuppa solo lavandini. Se invece voi schiacciate la funzione sull’oggetto poi diventa impossibile districarli. E infatti il tappo del mio bidet resta incastrato. Capite quante cose dipendono dal vostro eloquio? Orsù, ferramenta: cessate ogni equivoco. Uscite allo scoperto. Non temiate le parole.
Magnifica. Era solo questione di dove pubblicarla. Reset? Micromega? I ferramenta leggeranno riviste di teoria politica? Una lettera aperta su un quotidiano? Quale? Vabbè, si disse, chiamiamo l’emmezeta, il castorama, il punto brico, e vediamo se la mettono sul retro di un volantino. Prima però la sottopose al collega.
«Ma che è ‘sta cosa?»
«Un’invettiva. È per richiamare tutti all’uso di parole calzanti»
«Le invettive sono retoriche. Solleticano l’indignazione, giocano con le emozioni. Tu vuoi combattere il male con il virus»
«Stai dicendo che sono stato impreciso?»
«E certo, hai usato un linguaggio metaforico, ti sei richiamato a princìpi, a ideali. Meglio i ferramenta allora, che privilegiano la funzione e non la forma: sono pragmatici. Tu sei un romantico»
Fu quello l’istante in cui concepì il suo piano. Si sarebbe introdotto nottetempo nell’abitazione del collega. A tentoni, nel buio, avrebbe indovinato la sala da bagno. E poi, con abbondanti quantitativi di bostik, avrebbe saldato il tappo del suo bidet al foro. L’indomani, in ufficio, l’avrebbe ascoltato lamentarsi dei suoi vani tentativi per venirne fuori e li avrebbe denigrati, traendone appagamento, pace interiore, senso di ristabilita giustizia.
«Sai che m’è capitata la stessa cosa?»
«Cosa?»
«Niente, mi s’è incastrato il tappo del bidet»
«No, ma dai. Pure a te?»
«Eh.»
«E che hai fatto?»
«Ho chiamato l’idraulico. C’avrà messo due minuti».