Urania era molto meglio del camioncino
Non è per dire, però c’è uno (un siciliano) che in agosto girerà la Sicilia con un furgoncino (la book car) per portarci i libri.
Lui si chiama Filippo Nicosia e dice che:
«Da Roma in giù, si sa, i promotori neanche ci vanno. I dati di vendita dei libri al Sud sono sconfortanti».
Ecco, al di là del sostegno che sento di dover dare all’iniziativa, mi sono cominciato a chiedere delle cose e alla fine sono arrivato alla conclusione che io, per fare leggere la gente, forse assumerei l’atteggiamento opposto a quello del camioncino. Nel senso:
ma se uno non vuole leggere, ma perché gli devono scassare la minchia?
Lo so che sembra una scemenza, però oggi ne parla Elena Stancanelli su Repubblica e l’altro ieri ne hanno parlato a Fahreneit (un sacco di gente che voleva mandare libri a Lampedusa perché “le isole hanno bisogno di libri”), e a me pare che quando se ne parla ti parlano come al bambino che non vuole mangiare gli spinaci, ti dicono che leggere fa bene, ti conviene, ti serve a questo e quello, quindi ora per favore apri bene la mente e inghiotti senza sputare.
E va bene, ho capito, ma pure fare sport fa bene, conviene, migliora la vita, la salute, però io un quacchero che gira col camioncino attrezzato per convincerti a fare un’ora di corsa o di nuoto ancora non l’ho visto.
Quindi forse ci dobbiamo solo mettere d’accordo su questa cosa: leggere cos’è? È un piacere o un dovere? Perché i piaceri è inutile predicarli, io non l’ho mai visto un imbonitore o un predicatore di piaceri, quelli che predicano di solito si flagellano con il cilicio, per i piaceri non c’è bisogno di prediche, i piaceri si predicano da soli, non è che ai piaceri uno ci si deve convertire. Sono i doveri che vanno predicati.
In Italia pare che leggere sia un dovere: bisogna leggere, è importante. E infatti nell’articolo di Stancanelli ci sono frasi che un po’ fanno venire in mente una medicina e un po’ fanno pure paura:
«Se la gente non va dai libri, saranno i libri ad andare dalla gente». [Io però se un libro si presenta a casa mia manco gli apro. Metti che poi mi vuole vendere un’enciclopedia].
«Da Therese [una libreria di Torino, racconta Ferraris, il proprietario] le persone entrano e parlano, chiedono e ricevono consigli. Li aspettiamo, ma ogni tanto li andiamo anche a cercare con la nostra book car». [Cioè questi qua si sono organizzati con una specie di ronda per il rastrellamento: se non ti consegni spontaneamente, ti vengono a prendere fino a casa].
Che poi secondo me è sempre in base a questo atteggiamento del “mangia che ti fa bene” – che quanto più lo si nega (prospettando le iniziative sulla lettura come “divertenti”, “curiose”, “originali” ) tanto più lo si rafforza (solo le cose noiose hanno bisogno di camuffarsi da cose accattivanti) – che gli scrittori poi si convincono di essere in missione per conto del bene e si arroccano su posizioni di una supponenza antipaticissima, tipo quella che hanno preso in coro sul talent show sullo scrivere previsto dalla Rai per il prossimo novembre.
Lo scrittore – che è il corrispettivo speculare del lettore, perché è noto che chi legge molto prima o poi a scrivere ci prova- pensa sempre che oltre a scrivere deve “fare pensare”, “dire qualcosa”, impegnare ed essere impegnato: pensa insomma che scrivere sia sempre e comunque più “arte” di qualsiasi altra arte, perché, per dire, pure il canto è un arte, ma nessun cantante si indigna se fanno un talent show sui cantanti (o sì?).
E infatti che succede? Che non legge nessuno. Perché è una tristezza.
Lo scrittore italiano o fa le “belle lettere”, oppure cerca il risvolto sociale, la critica al vivere contemporaneo, insomma fa “l’anima bella” che si contrappone al vivere orrendo dei suoi tempi: lui su una rupe, a difendere se stesso e i suoi lettori dalla barbarie, e gli altri, in preda ai roghi e ai saccheggi dell’ignoranza.
E così scompare l’intrattenimento puro, la letteratura di genere e quella d’evasione, che è l’unica che potrebbe portare la gente (forse addirittura perfino i siciliani) a leggere senza bisogno del camioncino.
Invece se parli con un qualsiasi “lettore forte” (che di solito è sempre lì lì per diventare uno scrittore), quello si dice disgustato da chiunque venda libri e abbia un minimo di successo. Camilleri? Puah, scrive gialli, orrore. Lucarelli? Oh schifo, vende copie a migliaia. Fabio Volo? Piace alle casalinghe, sei pazzo. Faletti? Ma è un comico, che dici.
E allora, scusate, ma la gente non solo deve leggere, deve pure leggere quello che dite voi? Stando a Filippo Nicosia, il libraio itinerante, parrebbe di sì:
«Ho chiesto alle piccole case editrici, minimum fax, marcos y marcos [che ormai, poi, chiamale piccole…] la Nuova Frontiera, Nutrimenti, Due Punti, l’Orecchio Acerbo, Voland e tutte le altre che sto dimenticando… di poter scegliere. Così quando mi fermerò nelle piazze, venderò solo libri che mi piacciono [cioè io mi devo comprare non un libro che piace a me, ma un libro che piace a te?] e saprò raccontarli meglio».
Non è che possegga dati particolareggiati in merito, ma pare che in parecchi paesi europei (Germania e Inghilterra su tutti) si legga molto più che in Italia.
E infatti basta farsi un giro sulla metropolitana di Londra per accorgersi che quasi tutti hanno un libro in mano.
Ora, a parte il fatto che abitando in un punto molto a sud ho potuto constatare come, man mano che si sale, la lettura diventa sempre più uno schermo (a Roma, per dire, nella metro la gente parla, pure abbastanza ad alta voce, a Milano già si parla molto meno e fanno la comparsa i giornali, mentre da Parigi in su si “legge”, nel senso di certi tomi enormi: come a dire, cerco di non guardare nessuno, di farmi più che posso i fatti miei, mi metto le cuffie e apro l’e-reader. Infatti chi altro legge un sacco? Le coppie che hanno appena litigato. E non può essere un caso. Gli ziti, i mariti con le mogli, dopo che se ne sono dette un sacco, allo scopo di non cacarsi per un poco di tempo, leggono: si aprono un giornale o un libro a testa perché così riescono a restare nello stesso posto senza parlarsi. Quello dell’isolarsi è uno dei tanti aspetti della lettura, che può essere buono come cattivo, eh, perché d’altra parte anche chi sta in rete tutto il giorno praticamente legge tutto il tempo, e non mi pare un campione di umanità da prendere a modello).
Comunque se uno sbircia anche solo le copertine si capisce benissimo cosa leggono a Londra e a Berlino: libri fatti per essere venduti e letti, come quelli di Fabio Volo o di Moccia da noi. Solo che là nessuno si indigna se Bridget Jones fa sei milioni di copie e Julian Barnes no: sono due campionati diversi, ognuno gioca il suo, come è normale che sia.
Così a me viene il dubbio che in Italia si legga meno che altrove perché altrove sono più bravi di noi a farsi leggere anche da chi non è un “lettore forte”.
Qua appena sconfini (Saviano, per dirne uno, è ormai bersaglio di continui sarcasmi e di una diminutio a oltranza: ha superato abbondantemente e da subito la cerchia dei lettori forti e si è fatto leggere e comprare da molte più persone, e questo immediatamente lo ha squalificato presso quella comunità “impegnata” dalla quale in origine proveniva) sei bollato: perché sotto sotto l’intrattenimento è sempre un po’ malvisto, è sinonimo di scimunitaggine.
E così arriviamo allo sdegno per il talent.
Cos’è un talent? Un talent è uno spettacolo. Non c’entrano Dostoevkj o Proust: c’entra che chi scrive può anche non essere diverso da chi canta o da chi suona, e magari lo fa per puro diletto. Non è che scrivendo per forza uno vuole fare l’arte o la letteratura. Non è che può scrivere solo chi pensa di stare dando al mondo qualcosa che lo migliorerà. Magari c’è pure qualcuno che vuole solo intrattenere se stesso e magari riuscire anche a intrattenere qualcuno. Come chi canta una canzone o balla dalla De Filippi. Cos’è quest’aura di sacralità dello scrittore, questa presunta superiorità rispetto a tutto il resto, che fa indignare sul talent come se fosse vilipendio alla più nobile delle arti? Vilipendio a che? Al cliché dello scrittore che si chiude in una soffitta e la notte ispirato dalle muse compone con la penna d’oca? Ma non è una minchiata? E non c’è una presunzione enorme nel vedersi così, scrittori e lettori, membri del club dei colti e degli artisti?
Scrivere o leggere non significa essere tutti parenti di Shakespeare. Scrivere è anche come cantare una canzone. Le canzoni sono tante, per tanti gusti: puoi cantare Gershwin all’opera e puoi cantare pure Gianni Celeste sotto la doccia, dipende dai contesti e da cosa ti va o ti riesce di fare.
Se magari ci si scrolla di dosso quest’idea orribilmente paludata dello scrittore artista, magari arriveremo prima o poi ad accettare l’idea dello scrittore intrattenitore. E secondo me a quel punto la gente sì che comincia a leggere, altro che camioncino.