La grande tentazione
Stando a ciò che si legge circa la genesi de La tentazione di Sant’Antonio, romanzo di quel Flaubert citato a più riprese ne La grande bellezza, lo scrittore ebbe l’ispirazione dinanzi a un quadro di Bruegel dallo stesso titolo, scoperto durante una visita a Genova. Flaubert fu colpito da come nella tela Antonio fosse ritratto in disparte, intento a leggere le sacre scritture: le scene dipinte nel quadro sono la rappresentazione di ciò che il Santo vede leggendo. Dalle parole della Bibbia scaturiscono le immagini mentali di Antonio, e dalle sue immagini mentali, quelle reali del quadro di Bruegel. Infine Flaubert, scrivendo La tentazione di Sant’Antonio percorre l’iter all’inverso: dalle immagini del quadro di Bruegel alle parole del suo libro.
Perché non ragionare allora su La grande bellezza allo stesso modo, come se cioè si fosse affetti da una cecità totale verso tutto ciò che il film contiene di figurativo? Non è da escludere che La grande bellezza delle immagini girate da Sorrentino volesse essere atropina e obnubilare piacevolmente gli occhi, per poi irritare con la sceneggiatura.
Ciò spiegherebbe perché prima di stroncare con più o meno veemenza la pellicola, o di accoglierla tiepidamente, i commentatori comincino riconoscendo alla regia l’onore delle armi: checché se ne pensi, Sorrentino ha il coraggio dell’ambizione. Segue paragrafo in cui si sottolinea quanto poco abbiano a che vedere i suoi film con la piega crepuscolare, quotidiana e intimista imperante nell’ultimo cinema italiano, e di come questo sia un gran pregio. In effetti Paolo Sorrentino non teme l’esibizione del proprio talento, e già al festival di Torino del 2009 dichiarava:
«Ho sempre ammirato la sapienza tecnica di Fellini e sono convinto che la regia debba palesarsi ed essere vanitosa».
È un po’ un manifesto, eppure nonostante l’onesta dichiarazione d’intenti, chi critica il film quasi sempre conclude rimproverando al regista proprio ciò per cui l’ha lodato in premessa, giudicando nelle ultime righe l’ambizione come superbia, il coraggio come tracotanza, il talento come pretenziosità. Così Nicola Lagioia su “Minima et Moralia”:
«L’errore – come accade a volte ai talentuosi – è simile a chi voglia scrivere un romanzo su madame Bovary […] e finisce per scrivere il romanzo di madame Bovary. Non cioè come l’avrebbe scritto Gustave ma Emma (il primo può dire della seconda c’est moi ma il contrario risulterebbe rovinoso)».
Effettivamente, ne La grande bellezza un che di irritante c’è. Ed è, come in quasi tutti i film di Sorrentino, la verbosa supponenza del protagonista. Questi è spesso il medesimo tipo umano (altrettanto spesso interpretato da Toni Servillo, a rimarcarne la continuità di maschera) anche se ribattezzato ogni volta con nuovi improbabili nomi (oramai indistinguibili da quelli di Maccio Capatonda: Titta Di Girolamo, Tony Pisapia, Tony Pagoda e infine Jep Gambardella) ma soprattutto con lo stesso identico difetto caratteriale: la tendenza a sentenziare sulla vita e i massimi sistemi, dispensando banalità come fossero verità rivelate.
Qui di seguito alcune aforistiche meditazioni di Jep Gambardella:
«Una bella donna, alla mia età, non è abbastanza».
«Sull’orlo della disperazione, non ci resta che farci compagnia».
«La più sorprendente scoperta che ho fatto subito dopo aver compiuto sessantacinque anni è che non posso più perdere tempo a fare cose che non mi va di fare».
«È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore, il silenzio, il sentimento, l’emozione e la paura, gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza e poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile».
«Quando, da giovane, mi chiedevano: cosa c’è di più bello nella vita? E tutti rispondevano: “La fessa!”, io solo rispondevo: “L’odore delle case dei vecchi”. Ero condannato alla sensibilità».
Più che dalle parti di Flaubert siamo da quelle dell’ultimo Erri De Luca, o forse di un Diego De Silva cui un cattivo accordatore abbia reciso la corda dell’autoironia.
La cosa infastidiva meno sia ne Il divo che ne L’uomo in più. Per la verità ne Il divo il disturbo non si avvertiva affatto: a sentenziare lapidarie verità era un assai credibile Belfagor, immerso in un paesaggio oniricamente shakespeariano che proteggeva l’Andreotti-personaggio dalla caduta nel ridicolo, concedendo così all’Andreotti-reale la licenza di elucubrare senza più infingimenti quella fosca teodicea secentesca che in vita fu costretto ad ammantare di ipocrita ironia.
Ne L’uomo in più (e nella sua prosecuzione ideale, il romanzo Hanno tutti ragione) il fastidio era mitigato dal basso lignaggio culturale del protagonista, la cui spocchia più che indispettire inteneriva: eravamo tutti ben disposti a farci spiegare il cosmo da Tony Pagoda, cantante neomelodico in disgrazia e male in arnese. Nessuno può invece tollerare di farselo spiegare da Jep Gambardella, prima firma di un prestigioso quotidiano e gran visir delle feste romane. Specie da una terrazza vista Colosseo e con un Martini in mano.
Ad ascoltare certi monologhi di Jep ne La grande bellezza, si ha insomma la sensazione che a Sorrentino sia come caduta la maschera: ha voglia di pontificare e nessuno lo tiene più. Eppure il prodursi di questa irritazione è la parte più riuscita del film: le banalità – intollerabili in bocca a un vero intellettuale, scrittore di culto per il suo memorabile libro giovanile e oggi influente critico d’arte – sono funzionali alla rappresentazione. Se ad ascoltarle ci si chiede come possa un uomo dalle ottime letture, dal gusto raffinato e dalle frequentazioni altolocate uscirsene fuori con massime tanto dozzinali (per di più pronunciate con un buffo accento di Posillipo) la risposta è che può perché deve: Gambardella, e la Roma in cui vive, sono la mise en abyme di Sorrentino e della sua ambizione di fare film potenti e universali. Frustrata. Frustrata da chi? Ma da Roma, ovviamente. Gambardella festeggia il sessantacinquesimo anno d’età, e in un momento di rimembranza gli sovviene che in gioventù voleva e (sembra di capire da quel che di lui dicono i personaggi comprimari) poteva essere un grande scrittore. Oggi, dopo chissà quanti anni di festini e aperitivi, noi spettatori constatiamo come Roma su di lui abbia stravinto, riducendo un Flaubert in potenza a un Bellavista in atto.
Sineddoche dell’intero milieu culturale italiano, Roma ha cioè agito su Jep Gambardella come Milano aveva agito su Luciano Bianciardi. Il paradigma del film, allora, non è tanto La dolce vita, quanto La vita agra.
Forse è per questo che il film ha deluso Nicola Lagioia:
«La grande bellezza è allora lo strano caso di una sindrome di Stoccolma rovesciata. Il rapitore si lascia ipnotizzare dal rapito. Non è in definitiva il film di Paolo Sorrentino che prende il punto di vista di Marta Marzotto e Belen Rodriguez e Stefano Ricucci e Roberto D’Agostino e Roy De Vita e Barbara Palombelli e Fabrizio Corona e il cardinal Ruini, ma l’opera di Marta Marzotto e Roberto D’Agostino che invece di fare Mutande pazze si ritrovano magicamente con la bella fotografia e la capacità tecnica di realizzare un piano sequenza proprio come lo farebbe Sorrentino, messo al servizio tuttavia sempre di Mutande pazze con pretese di autorialità».
Se lo si legge in senso “bovariano” è effettivamente deludente. Ma se lo si legge in senso “Santantoniano”, allora è una vera potenza, e si può concordare con Filippo Facci, che nella sua recensione sul Post spiega, a partire da un aneddoto autobiografico come le immagini del film – il quadro di Bruegel cui si accennava – non siano scaturite dall’osservazione della realtà:
«Ho conosciuto Paolo Sorrentino in una dimensione che ha contribuito all’equivoco: una serata a casa di Roberto D’Agostino e della moglie Anna Federici, ovviamente a Roma, sulla loro terrazza che si affaccia sulle anse del Tevere e si offre pienamente alla Grande Bellezza. Parlammo dei suoi film e di cose varie. Sorrentino era lì dichiaratamente per cercare e studiare atmosfere che potessero essere utili al suo film, e che, come ora è evidente, non trovò o forse non volle utilizzare. Era nel posto migliore per coglierle, per carpirne dialoghi e spirito: ma non lo fece. […] Quella del film non è Roma, o non particolarmente: non lo è e basta, neppure in caricatura, quei chirurghi plastici non esistono, quelle feste discotecare non esistono […]»
Ma dalla lettura che Sorrentino ne ha fatto, e dunque dall’immaginario in lui prodotto dalla lettura di quei contesti (esemplare in questo senso, l’ufficio della direttrice nana con tanto di pelouche giganti e minestroni riscaldati, che fa ripiombare ogni volta tutto il film nell’atmosfera trasognata de Il divo, di cui è stretto parente):
«Esistono, quelle sì, le personalissime proiezioni di Paolo Sorrentino […]»
Facci le chiama appunto proiezioni, ma, almeno nel senso della cupio dissolvi da cui è animato il protagonista, le si potrebbe dire anche tentazioni: Jep, arrivato a Roma giovane e puro, al contrario di quanto fa Antonio, cede subito, convertendo le proprie ambizioni letterarie in ambizioni mondane:
«Io non volevo solo partecipare alla feste, io volevo avere il potere di farle fallire».
Ecco che allora nel film non c’è e non può esserci Roma, ma solo la sua sublimazione: il corpaccione di Roma con le sue imponenti rovine (il Colosseo), che si unisce in sinolo panoramico (le terrazze con vista) col corpaccione dei romani (Serena Grandi). Romani che anche quando non sono romani (o proprio perché non lo sono, e dunque sono il distillato della romanità acquisita) ostentano tutto il loro disincanto al ribasso, quel cinismo deprezzato (Carlo Buccirosso, Massimo Popolizio) che oltre a fare da livella per l’ambizione, s’attorciglia con tutta la sua grevità mondana allo spirito, tenendolo ancorato alla carne. Solo di carne, ad esempio, e dei molti e vari modi per cucinarla ama discorrere il festaiolo cardinale impersonato da Herlitzka.
Appunto, il film si chiude sulla Santa come il libro di Flaubert si chiudeva su Ilarione, la tentazione più forte, che qui si cappotta in testacoda: Jep esteta gaudente, dandy da locale di spogliarelli, al contrario di San’Antonio non subisce la tentazione della carne, ma quella dello spirito. E lo spirito gli appare tra fenicotteri inviati da chissà quale panico deus sive natura, sotto forma di una centenaria sdentata (dopo tutta ‘sta meraviglia, tie’ che ti metto ‘sta vecchiaccia, commentava in sala una lepida spettatrice). L’Ilarione flaubertiano gettava Antonio nella crisi più profonda facendolo dubitare del mondo in cui aveva sempre vissuto (le scritture), così come la Santa fa dubitare Jep del suo (le terrazze). Il mondano Jep Gambardella amante delle albe e spregiatore delle mattine consuma il suo lento tramonto nel dubbio di avere speso la vita inseguendo ombre (Fanny Ardant) come un flaneur benjaminiano, e nel finale del film sprofonda nello spleen:
ILARIONE: Chi ti rattrista?
ANTONIO dopo essere stato lungamente sovrappensiero: Penso a tutte le anime che si sono smarrite in questi falsi dèi!
ILARIONE: Non ti pare che essi… talvolta… assomiglino in certo modo al vero Dio? *
A chi ha guardato il film cercandovi la vera Roma (quella in cui «non ci sono più i preti») senza trovarla, Jep Gambardella probabilmente risponderebbe con una delle sue facili citazioni che Ceci n’est pas une pipe.
(Pubblicato su Vicolo Cannery)
*(G. Flaubert, La tentazione di Sant’Antonio, p.153, Einaudi, Torino 1990, traduzione di Agostino Richelmy)