Maledetto Bianconi
A me con Bianconi viene la sindrome di Stendhal. Certo, se avessi un gusto musicale più educato mi verrebbe con Wagner, però ognuno ha i rapimenti estatici che si merita. Una cosa che ammiro moltissimo di lui è questo coraggio di indugiare per interi album in certi stati d’animo su cui non sarebbe sano indugiare per più di un ritornello: apre il rubinetto della vasca da bagno, la riempie di acqua così sulfurea che i vapori sembrano quelli dello Stige e poi ci si infila dentro un piede alla volta, col calore che ustiona la pelle e la stacca dal corpo, la carne che si spappola e comincia a bollire, e lui che serafico come un santo al martirio continua piano piano a calare il corpo dentro a quel fuoco liquido. Fino a quando la testa è tutta sott’acqua, e allo strazio delle ustioni si aggiunge quello dell’apnea.
Bianconi per me è la catarsi del lasciarsi uccidere da tutto ciò in cui hai sempre evitato di cadere. E lui, secondo me, lo sa: ha questo piano lucido e pernicioso per spingerti a saltare giù dal dirupo e precipitarti dentro l’abisso ribollente. Una tecnica che ormai ha consolidato.
All’inizio ti rassicura: le sue canzoni più riuscite sono melodie che in qualche modo ti sembra di conoscere da sempre. Vengono dagli anni sessanta, dai motivetti che tua mamma cantava in macchina mentre ti accompagnava a scuola, dai primi giri armonici che hai imparato a strimpellare con la chitarra: ti spinge indietro verso un’età dell’innocenza musicale, quella del piacere puro dell’orecchiabile, della strofa che ti rimane impressa senza sforzo.
Al primo, al secondo, al terzo ascolto lui continua a blandirti con certe parole del ritornello, che sono ancora quelle degli anni verdi dei tuoi genitori: gli occhi tuoi, mio folle amore, stringimi la mano, i nostri baci, ti sembra tutto innocuo, lo segui, ti fai portare dove vuole lui. Perché è vero che ci sono tanti accordi in minore, però tutto sommato siamo ancora all’aria aperta, c’è luce, senti che un po’ ti stai illanguidendo, e pure se le ginocchia un po’ ti fanno giacomo giacomo, è così piacevole che alzi pure il volume.
Poi rimandi indietro la traccia e cominci a fare caso al suo tono di voce basso e a sentirci dentro quella cupezza cantautoriale alla De Andrè. Ti viene come l’ombra di un sospetto. Ma lo scacci, non vedi motivo di non fidarti: cantautori, canzoni di marinella, luttuose, sì, magari anche una corona di fiori del male, col testo forse ti sta rimandando a qualcosa di ottocentesco e di macabro, la ginestra, Leopardi e anche Poe, ma con gli arrangiamenti siamo sempre dalle parti degli anni sessanta: e poi a chi può fare paura Poe, oggidì? Com’è deliziosa invece questa progressione armonica: ti sciogli, cominci a lasciarti andare, pensi che non ci fa niente se un poco ti godi quello struggimento, che vuoi che sia, non bisogna avere paura delle emozioni, uno si perde un sacco di cose se rimane rigido. Dai rimettila, che la sentiamo un’altra volta.
E hai fatto la minchiata.
Adesso è troppo tardi. La faccia lunga di Bianconi ti compare davanti in tutto il suo pallore, barbuto ed esangue, e le frequenze cavernose del suo cantato ti trascinano in profondità che non desideravi affatto esplorare. Non eri attrezzato, non eri pronto: lui ti ha fatto superare il punto di non ritorno a tradimento, e ora ti sta dicendo che si fa sul serio, che nessuno uscirà vivo da qui, sta per immergere pure te dentro la vasca. Piglia aria, senti a me, che è meglio.
Sott’acqua alla infinita tristezza nostalgica delle parole devi farci caso per forza, perché luce non ce n’è e loro sono le uniche cose che brillano. Lassù, in superficie, sembravano flebili, banali, ordinarie, quassotto invece sono candele, e lui le ha accese solo perché tu possa accorgerti che il fondo non c’è, non si vede: credimi morire non è niente/ se l’angoscia se ne va.
Morire? Ma come morire? No, che morire, Bianconi, meglio l’angoscia, lascia perdere, ora torniamo su, per favore, Bianconi, buttana della miseria, dove cazzo mi hai portato? Sei spacciato, ti dice il suo sorriso mesto. Eppure non sei dentro a un film del terrore, non ti senti soffocare: c’è del gioco in quello che state facendo, sembra una passeggiata nell’Ade, o in un limbo in cui non siete vivi ma neppure morti, la chitarra a un certo punto torna di nuovo allegra, ha un suono che ricorda le colonne sonore di Tarantino, o di un vecchio western, arrivano scampoli di ironia, niente va mai preso sul serio fino in fondo, ti dice lui, nemmeno questa immersione. E infatti Bianconi spruzza sempre un poco di autopresa per il culo nelle sue canzoni, spesso inserendo clichè o frasi fatte in contesti alti. Qui ad esempio, al minuto 1:10, dice un si fa per dire, che stempera tutto, anche se solo per sessanta secondi, giusto il tempo di darti l’illusione che ci sia una via di salvezza. Così quando al minuto 2:12 la campana suona a morto ci resti ancora peggio. Che c’entra il funerale, Bianconi? Non si chiamava La morte (non esiste più) questa canzone? Dov’era la fregatura? Nella parentesi?
Più diventi consapevole del trucco e più ti piace che lui sia stato tanto bravo a fartelo: le immagini salvifiche si alternano a quelle angoscianti, lo sconforto cede il passo al trionfalismo e viceversa, come si addice a ogni vera mania depressiva. A volte questa oscillazione è esaltata da un verso tronco ed evocativo, lasciato in sospeso: lui lotta come mosca nel bicchiere, eppure Dio. (Eppure Dio, buttato là, in mezzo a una canzonetta, è un verso stupendo pure per chi non crede). E infatti mica lo capisci se per lui è un peccato o una fortuna che la morte non esista più, che il tempo non imbianchi le parole e non si secchino a lasciarle stese al sole. È un bene, Ciccio Bianconi? È un male? Secondo me non gliene frega niente di stabilirlo. Perché la canzone, come tutto l’album, è imperniata su un sentimento ancora più basilare: la nostalgia. Non importa se morire fosse un bene o un male: importa solo che non è più così, che non si muore più, né d’amore né di nulla, è cambiato tutto, niente è più come prima, e questa è una cosa triste in sé, perché fa provare nostalgia, e la nostalgia si può provare per tutto, anche per le cose brutte, anche per la morte. È quel più, la chiave di tutto.
Nel frattempo siamo al climax della canzone, cioè la fine, dove la sezione degli archi ha preso il sopravvento su tutto, anche sui fiati (che nel frattempo sono cresciuti) e ora è fuori controllo: sta montando, si sta gonfiando come un’onda dentro la vasca, ha deciso di fare strame di te e della tua anima, dilaniarla e darla in pasto alla tua stessa malinconia. Che se la mangi, allora, che la inglobi e poi la sputi, tanto che te ne fai di un’anima, se serve a fartela togliere da canzoni come questa? Solo che quando sei sul punto di cedere senza più fare resistenza, Bianconi c’ha questo gusto sadico di rianimarti: mentre i violini puntano dritto al dramma finale, il violoncello accenna le prime note del tema di 007. Ma che è scemo, questo? Ma come, Bianconi, io sono qua che aspetto che tu mi finisci, che mi dai il colpo di grazia: ti pare il momento di scherzare? E il tema si perde in un accordo minore, i bassi delle viole seguono gli acuti dei violini e partono insieme verso un punto di fuga, una specie di orizzonte sonoro dove cominci a sperare che il calore di quello che stai sentendo diventerà così intenso da liquefarsi fino a svanire in essenza. Siamo al minuto 3:53, lui ha appena cantato l’ultimo verso, che ti restituisce alla luce, all’aria della superficie: parlami d’amore/nonostante la stagione/pioverà (e anche qua c’è quel gioco di accennare a una citazione per poi portare altrove il discorso: Parlami d’amore, e uno s’aspetta: Mariù. E già un po’ viene da ridere. E invece no). Ecco, magari se piovesse, l’acqua della vasca si raffredderebbe, la tua pressione sanguigna tornerebbe a valori da vivo. Piovi, dai. Bianconi, apri il rubinetto dell’acqua fredda, per favore. Preghi che la canzone ti ascolti come tu hai ascoltato lei, e forse è così, perché ora c’è solo l’orchestra, il tema sta sfumando insieme al vapore. La guerra passerà. Respira. Niente muore, baby.