Scrivere, dicevamo una sera in hotel
Ormai quando uno va alla presentazione di un libro (io ci vado in continuazione, lo so che è un’abitudine insana, ma del resto vado anche ai comizi e alle conferenze stampa, e passerei ore a osservare il bancarellaro del Bosco Minniti mentre fa la dimostrazione di quel coso che cava il succo dal limone senza tagliarlo: a me la pubblicità dimostrativa piace, che ci posso fare?) scatta sempre la domanda sulla scrittura di massa, specie se a presentare il libro è un esordiente. Spesso l’interrogativo assume la forma del “com’è che adesso scrivono tutti? com’è che tutti vogliono scrivere? com’è che tutti c’hanno un blog, fanno giornalismo dal basso, livetwitting e cose così?”, che comunque secondo me è una domanda poco carina da fare a uno scrittore (specie se esordiente), tanto vale che gli dici: ecco qua un altro scemo che si sente Cicerone, chiamate la neurodeliri, presto.
Chi pone la questione di solito ha le vene del collo in rilievo e un colorito che varia dal livido itterico al rosso paonazzo, e sembra proprio avvilito dalla quantità di parole scritte che circola in rete, insofferente al punto da sentirsene soffocare. Da come ne ho tratteggiato il ritratto, risulta però evidente che anche costoro (i domandatori) patiscono un pregiudizio: se ne sentono disturbati e si sfogano alle presentazioni dei libri perché a disturbarli in realtà è il fatto che su facebook e twitter ci sono persone pronte a sputtanarsi senza farsi tante paranoie, mente loro, che il talento ce l’avrebbero sul serio, non confesseranno mai a nessuno che da vent’anni lavorano al nuovo Guerra e pace o alla nuova Critica della ragion pura. Secondo me anche questo non è per forza vero e non ha senso accomunare tutti nel girone degli invidiosi (a meno che tu non sia Dante- e quanto sarebbe bello esserlo già solo per questo- che poteva sbattere la gente che gli faceva antipatia dove gli pareva a lui). Forse allora è solo che siamo un po’ tutti vittime di un cliché sempre più insopportabile. Vediamo se riesco a dire quale.
Effettivamente le velleità artistiche possono dare fastidio, e diciamo che la dimensione social assunta dalla nostra esistenza le titilla e le ingrassa fino a renderle moleste. Siamo diventati tutti fotografi, scrittori, poeti, aforisti, editorialisti, stilisti, giornalisti, musicisti, cantanti e le nostre bacheche facebook sono la nostra esposizione personale permanente. Per esempio: io. Non so fare neanche una o col bicchiere, però provo lo stesso a scrivere, quindi appartengo in pieno alla schiera dei velleitari. E invece non mi ci sento. Com’è questo fatto? Io dico che è una questione di quantità/qualità mista alle aspettative che uno nutre nei confronti del mezzo (la scrittura). Da quando esistono i social network la gente scrive di più. Molto di più. E questo dato quantitativo incontestabile è alla base della domanda sulla scrittura di massa. Però che c’entra la quantità con la qualità? La qualità di cosa scrivono gli illetterati come me è irrilevante. Associare la scrittura alla qualità della scrittura (se scrivi è perché sai scrivere, che poi pure qua ci sarebbe molto da dire su chi sa scrivere cosa) è una specie di retaggio ereditato da certo vetero-romanticismo (il poeta tirtaico), quello secondo cui la statura “autoriale” dello scritto è l’unico criterio che ne autorizza la diffusione. In pratica molto pubblico delle presentazioni rimane convinto che ci sia qualcuno che dà le patenti di scrittore, e che se la patente non ce l’hai ma scrivi lo stesso è solo perché sei un esibizionista. C’è insomma ancora molto presente questo mito dello scrittore che, quando è un vero scrittore, scrive per se stesso e non per gli altri, a meno che non ci sia un’autorità (presumo la critica: ma se uno non scrive finché non è riconosciuto dalla critica come fa a pubblicare e a essere riconosciuto dalla critica?) che gli riconosca il diritto di diffondere (in rete o a mezzo stampa) ciò che scrive. Da questo assioma si fa discendere una specie di corollario: quanto più esibisci la tua opera scritta tanto meno sei un vero scrittore. Chi ha davvero talento tiene tutto sotto chiave dentro al famoso cassetto. All’opposto, chi imbratta le bacheche con le sue ciance è di sicuro un mitomane «privo di qualunque talentaccio» (tanto per citare uno molto in gamba che su questa cosa ci ha scritto un libro divertente). Ecco: mi pare una minchiata. L’aumento quantitativo di parole scritte riguarda per lo più quelli che un tempo si sarebbero detti illetterati, nel senso di gente che usa la scrittura pur senza possedere nozione delle belle lettere (in una parola: senza essere un intellettuale). Oggi tra di noi illetterati si scrive un sacco perché tra di noi illetterati ci si legge un sacco. Prima, sempre tra di noi illetterati, non si scriveva per niente perché, sempre tra di noi illetterati, non ci si leggeva per niente. La gente normale (però noi illetterati mi piaceva assai e mi sta dispiacendo non scriverlo per la decima volta) ha cioè ricominciato a scrivere lettere (mail), a lasciare pizzini (sms), a commentare per iscritto le notizie (forum, blog, commenti) non appena le è stato fornito uno strumento adeguato alla velocità delle comunicazioni telefoniche cui si era ormai abituata.
In pratica ci deve essere una specie di legge della termostaminchia secondo cui chiunque abbia un destinatario finisce per scrivergli. E con la rete chiunque può essere il destinatario di chiunque, quindi: chiunque scrive e chiunque può leggere. Le velleità letterario-giornalistiche c’entrano e non c’entrano: la nascita, lo sviluppo e l’immensa popolarità dei nuovi strumenti di scrittura (i blog, twitter – che è micro-blogging- le newsletter, le groupletter, i social network in generale) dimostrano solo – e in modo lampante – che se l’essere umano ha qualcuno a cui scrivere, scrive, e se non ce l’ha, non scrive, esattamente come se non ha nessuno con cui parlare sta zitto (tranne Ignazio La Russa quando fa campagna elettorale a Milano).
C’è stata una fase storica (in realtà piuttosto breve se confrontata alla lunghezza di quelle in cui per comunicare principalmente si scriveva) in cui la comunicazione orale era semplicemente più conveniente e comoda di quella scritta, e questa fase di egemonia telefonica è tramontata con l’avvento della rete. Il sentirsi velleitariamente scrittore quando si scrive su un blog o su facebook è un accidente che riguarda la personalità di ciascuno di noi, una peculiarità del carattere che in certe occasioni si manifesta con maggiore evidenza e in certe altre no, un po’ come quando il sabato vai a giocare a calcetto scapoli contro ammogliati e in ciascuna delle due squadre c’è sempre quello che si sente un campione incompreso, o da scoprire, o la cui carriera in serie A è sfumata per colpa di un ginocchio molle. Eppure a pallone ci giochiamo tutti: non è che devi essere Maradona per prenotare un campo.
L’essere schivo, solitario, timido, introverso, restio a far conoscere i propri scritti a un pubblico è un mito romantico e basta: se non vuoi dire niente a nessuno, non scrivi. Nessuno, nemmeno Bufalino (il più citato da quelli che fanno la domanda sulla scrittura di massa alle presentazioni di libri), che tenne celata al mondo la Diceria dell’untore per decenni, risponde a questo ritratto dello scrittore eremita che compone frasi cesellate per il proprio esclusivo diletto. Bufalino teneva il malloppo nel cassetto perché non voleva essere letto da me o dal suo verdumaio: voleva essere letto da Sciascia e da Consolo (e aveva ragione: io non sono mai andato oltre pagina venti della Diceria, e me l’ha regalata il mio verdumaio perché a lui non era piaciuta). Era schivo o era snob? Nessuna delle due: aveva in testa un tipo di lettore che potesse leggerlo, e aspirava a essere letto da quel tipo di lettore. Ognuno quando scrive si rivolge a qualcuno che lo legga, a volte consapevolmente, e a volte inconsapevolmente, certo, ma la scrittura resta un atto comunicativo che perde ogni significato se non c’è interlocutore. Poi, di sicuro, c’è e ci sarà sempre il genio che parla da solo dentro una grotta al mero scopo di ascoltare la propria eco restituirgli la sua stessa voce, godendo beato di questo riverbero e di null’altro. Ma allora forse più che davanti a Bufalino siamo davanti a Holderlin, chiuso dentro la torre della casa del falegname, che quando riceve una visita si impaurisce e non vede l’ora che tutti si levino di torno per ricominciare a scrivere l’Iperione. E infatti Holderlin oltre che un genio era anche un pazzo conclamato.
Noi siamo nell’epoca della scrittura di massa semplicemente perché siamo nell’epoca della comunicazione di massa: le velleità letterarie, creative, sono sempre quelle che c’erano prima, alcuni ce l’hanno e altri no. Abbiamo semplicemente ripreso a scrivere, e stavolta a scrivere siamo un po’ di più perché siamo un po’ di più ad essere andati a scuola. È l’alfabetizzazione di massa, bellezza, e tu non puoi farci niente. Chi c’ha un blog scrive anche senza essere uno scrittore. Del resto c’è una bella differenza tra uno che scrive e uno scrittore. E secondo me c’è sempre stata. Anche prima di internet.