Buttatemi giù dalla torre di Babele (ovvero: del sottotitolo)
Django Unchained (con le battute di Schultz, ennesimo capolavoro misconosciuto degli adattatori italiani cui, anziché beatificarli subito, si dà addosso per fare la figura dei cosmopoliti), Lincoln (col suo sforzo immane di restituire il sapido inglese old fashioned del Presidente anche alla maggioranza di noi, che non avrebbe i mezzi per coglierlo) unitamente all’articolo comparso ieri su La Repubblica, hanno rinfocolato lo zelo dei crociati che si battono per i film in lingua originale.
Forti di questa lusinghiera notizia secondo cui il loro numero è in costante aumento, sentono imminente la vittoria, e sui blog e i social network si scatena la caccia grossa a quei pochi panda che ancora osano affermare di preferire il film doppiato.
Scrivo queste righe con un bracconiere alle calcagna, mentre sgranocchio germogli di bambù sul ramo più alto dell’albero.
Quella secondo cui i film è meglio guardarli doppiati in italiano che in lingua originale è da sempre una delle tesi più indifendibili presso la casta hipster, imperante sia in rete che nei tavolini da bar.
Se te ne esci con questa frase, laddove un secondo prima ci si scialava in risate e pacche sulla spalla con citazioni in inglese da The Big Lebowski o Frankestein Jr cala un silenzio spettrale.
Ti guarderanno tutti storto e per un momento valuteranno se non sia il caso di revocarti quella nomina a pari del regno che ti ha consentito di essere lì, in quel momento, al cospetto di quella stessa setta poliglotta che te l’ha concessa.
Poi qualcuno sbloccherà la situazione con una risata, convinto al cento per cento che stai scherzando, perché una minchiata del genere la puoi dire solo per scherzo, e la tua ammissione a corte sarà salva.
Se però i dogmi della fighetteria non fanno per te, e questa cosa che i film vanno visti doppiati la pensi veramente, ti renderai presto conto che anche solo spiegare la tua posizione è ritenuto intollerabile. Di fatto, ti si impedirà perfino di parlare.
Se insisti, perché di sicuro un po’ invasato ci sei, gli amici più fidati cercheranno subito di sconsigliarti: attento, che fai, lascia perdere, dai, ma sei pazzo? Quindi rinuncerai. Ma poi ti ricorderai che c’hai un blog e correrai a rovinarti con le tue stesse mani.
Premesso allora che qua lo sappiamo tutti che con l’inglese, col francese e al limite col tedesco o lo spagnolo siamo tutti bravi a fare gli smargiassi, e che la vanteria è un peccato mortale, proviamo a parlarne con cognizione di causa. E cominciamo con l’individuare quale sia la questione da dirimere.
A grandi linee (che adesso si procederà a sgrossare) sembra essere più o meno questa:
1. È meglio guardare i film in lingua originale o nella versione doppiata in italiano?
A cascata, discendono almeno altri due interrogativi diretti, ciascuno con le sue sotto-domande:
1.1 Se è meglio guardare i film in lingua originale, è meglio guardarli:
1.1.1 Con i sottotitoli
1.1.2 Senza i sottotitoli
1.2 Se è meglio guardarli con i sottotitoli, è meglio guardarli:
1.2.1 Con i sottotitoli in italiano
1.2.2 Con i sottotitoli nella lingua originale del film
Per giungere a una qualsivoglia risposta, è necessario definire preliminarmente il termine chiave intorno a cui vengono formulate le domande di cui sopra.
Si tratta dell’avverbio di modo meglio, comparativo di bene.
Se utilizzo il termine meglio sto istituendo un paragone tra due diverse entità, siano esse concetti, astrazioni, persone o cose.
Definire una entità come migliore di un’altra comporta un giudizio basato su dei parametri, che naturalmente muteranno in base alle entità che si stanno valutando.
Che tipo di entità stiamo dunque valutando?
A prima vista sembra proprio che stiamo paragonando due entità di tipo particolare, cioè due azioni.
Guardare (verbo all’infinito=azione) un film in lingua originale
Vs
Guardare un film in versione italiana.
Ciò è vero solo in forma assai parziale, essendo in realtà l’azione sempre la medesima (guardare).
A mutare non è dunque l’azione, bensì l’oggetto di tale azione, cioè il film.
Anche questa è una approssimazione poco soddisfacente, poiché l’oggetto non solo è sempre un film, ma è addirittura lo stesso film.
A mutare è in verità solo uno degli accidenti (nel senso di proprietà accidentali) dell’oggetto della nostra azione, e cioè la lingua.
A chiederci se sia meglio guardare un film in originale o guardarlo in versione italiana a cosa stiamo dunque attribuendo l’avverbio meglio?
Può venire in mente (e di sicuro a qualcuno sarà venuto in mente) che stiamo paragonando tra loro le lingue, e dunque staremmo scegliendo tra due diversi idiomi quale sia il migliore: l’italiano o quello in cui originariamente è stato concepito il film?
Questo sarebbe un interrogativo folle e insensato, e noi ci picchiamo di essere persone savie e sensate, dunque dobbiamo escludere nella maniera più categorica che l’oggetto del nostro paragone sia questo.
Viene allora da pensare che stiamo sì discutendo su quale sia la lingua migliore, ma non in assoluto, bensì solo riguardo quel film, oggetto della nostra visione.
E finalmente ci siamo arrivati.
Abbiamo adesso bisogno di un criterio (o magari più di uno) per stabilire se quel film sia migliore in lingua originale o in lingua italiana.
Credo di interpretare il parere di molti sostenitori della lingua originale affermando che il criterio principe in base al quale formulare questo giudizio sia più o meno questo:
Giammai bisogna modificare la lingua in cui il film è stato prima concepito e poi girato, poiché questo comporta una totale infedeltà all’opera.
Soffermiamoci a notare che, assecondando questo principio, ci si rifà a categorie eminentemente artistico-letterarie quali appunto
1)La fedeltà, e
2) L’opera (che qui si sottintende essere d’arte)
e non certo a categorie strumentali (quali ad esempio l’utilità). Teniamone conto perché ciò avrà una sua rilevanza più avanti.
Rifacendoci dunque al criterio della fedeltà all’opera e dandolo per buono (anzi per ottimo), sorge subito una difficoltà:
E se io quella lingua non la capisco?
Vediamo allora una serie di possibili risposte all’obiezione (pertinente):
– Eh, cazzi tuoi: ti scegli un film di cui capisci la lingua
– Metti i sottotitoli in italiano, stronzo
Fatto salvo che la prima risposta non elimina il problema, ma semplicemente lo ignora, resta la seconda. Che ci obbliga a parlare di cosa sia il sottotitolo.
Il sottotitolo è una stringa di testo che sintetizza il contenuto di quel dialogo, o di quella voce fuori campo, recitato/a in quella scena da una voce attoriale.
Per una serie di circostanze storico-economiche, il nostro pianeta viene dominato da una sparuta minoranza anglofona (se ragionassimo per quantità dovremmo tutti parlare cinese, o al massimo spagnolo). Ciò, allo stato presente delle cose, determina che qualunque film, in qualunque lingua sia esso stato originariamente concepito, venga sottotitolato in Italia (e in gran parte del resto del mondo) a partire dal sottotitolo inglese. Cosa significa? Questo: chi sottotitola l’edizione italiana di un film iraniano o swahili traduce in italiano il sottotitolo inglese, e non quello iraniano o swahili.
Tradurre un sottotitolo non è una cosa semplice, e ciò costringe a un’ulteriore digressione, fastidiosa ma utile.
Ultimamente gli utenti di internet creano in quello che si potrebbe definire tempo reale la versione sottotitolata dell’opera originale. Esce l’ultima puntata di Grey’s Staminchia e un’ora dopo la trovi già sottotitolata in italiano. Ecco. Da chi? Da un cane. No, non solo da un cane. Da una muta di cani. Che si dividono il lavoro. O peggio lo eseguono tramite i traduttori automatici (se qualcuno sostiene che un traduttore automatico possa degnamente tradurre qualcosa è dispensato dal proseguire nella lettura di questo post).
Dicevamo appunto che tradurre un sottotitolo è una cosa complessa, se appunto, non lo si fa da cani.
Per non farlo da cani si segue un metodo: si parte dal sottotitolo inglese, si utilizza una macchina (ormai più spesso un software) che calcola i tempi di lettura del sottotitolo “originale” (le virgolette servono a ricordare che se non si tratta di un film originariamente in inglese, il sottotitolo non sarà nient’affatto originale, ma inglese) e quello di arrivo, conta il numero di parole e la lunghezza di ciascuna di queste, e infine delibera una specie di Ok il sottotitolo è giusto.
Se sono ben riuscito a spiegare il processo, sarà stato semplice rendersi conto che non si tratta di una semplice traduzione, ma di un adattamento e, spesso, di un sunto delle battute pronunciate dagli attori.
In primis, si parte già da un falso: il sottotitolo inglese è, nel caso di un film non originariamente in inglese, una traduzione, un sunto e infine un adattamento, di un dialogo o di una frase espressa in un’altra lingua;
In secundis, anche nel caso di un film originariamente in inglese, si tratterà comunque un sunto e un adattamento (è la natura stessa del sottotitolo a esigere che lo sia).
Il derivante sottotitolo italiano è quindi in ogni caso il sunto e l’adattamento di un sunto e di un adattamento.
Se dunque il criterio in base al quale i sostenitori della lingua originale del film considerano il sottotitolo come il male minore, da preferirsi al doppiaggio, è quello della fedeltà all’originale, sappiano allora che la fedeltà del sottotitolo è quantomeno dubbia.
Tenterò tra poco di spiegare che è anche più dubbia della fedeltà del doppiaggio, e che questo, in termini di fedeltà all’originale, è da preferirsi.
Ma per ora soffermiamoci su questa acquisizione e chiariamola con un esempio.
La fedeltà che il sottotitolo ha nei confronti dell’originale è molto simile a quella che avevano nell’ottocento i romanzi tradotti dal russo.
Come in molti sapranno, nell’ottocento (ma anche nel novecento) la grande letteratura russa ci perveniva in forma mediata. I russi spesso studiavano in Francia. I francesi e i russi riuscivano per tanto a mediare tra le loro lingue. I romanzi russi arrivavano in italiano tradotti dal francese, non dal russo: ci arrivava la traduzione della traduzione francese dal russo. Il francese, del resto, era l’inglese dell’epoca: la lingua più diffusa al mondo come seconda lingua. Oggi, i sottotitoli italiani dei film ci arrivano mediati dall’inglese. Direi che come fedeltà siamo più o meno allo stesso livello, cioè più o meno quello di una Marina Ripa di Meana.
Mettiamo ora il caso indicato al punto 1.2.2, cioè quello in cui si conosca un po’ la lingua originale del film, quale che essa sia, e lo si visioni con i sottotitoli in lingua originale.
1. Se la conosco solo un po’: perché devo soffrire e sforzarmi tutto il tempo? (se avete risposto perché così imparo la lingua, scendete all’apposito paragrafo qui sotto).
2. Se invece la conosco bene: perché non togliere i sottotitoli ed evitare così di distrarsi, costringendosi a eseguire contemporaneamente la doppia operazione di leggere il testo e osservare la scena?
Vediamo ora in base a quale insensato delirio ho osato affermare che, in quanto a fedeltà, il doppiaggio è da preferirsi al sottotitolo.
1. Negli studi di doppiaggio, innanzitutto, si parte dall’originale: quale che sia la lingua di partenza, non è l’inglese a mediare. Se il film è danese si traduce dal danese.
2. Cosa ancora più importante è che a trascrivere il dialogo originale c’è una figura, il cosiddetto dialoghista adattatore. Questi è molto più di un traduttore: oltre che di tradurre, dovrà preoccuparsi di far coincidere la lunghezza delle battute, e dunque i tempi di pronuncia. Ma non solo: dovrà preoccuparsi, sotto la supervisione del direttore del doppiaggio, di rispettare l’intonazione della frase che viene pronunciata, valutando perfino quante palatali e quante labiali siano presenti nella frase originale e quante invece in quella italiana d’arrivo, e sforzandosi poi di farle coincidere, nel tentativo di non perdere nulla. Naturalmente è una chimera, poiché anche qui si tratta di un adattamento, ed è dunque inevitabile che qualcosa vada perso. Questa perdita è spesso però compensata poco dopo, o poco prima, nella scena precedente o in quella successiva, dove sovente si riesce a recuperare quanto si è smarrito: un espediente che vale anche per la traduzione dei libri. Ma non per quella dei sottotitoli, che essendo testi slegati – ognuno a se stante – mancano dell’organicità necessaria per poter giocare sul recupero.
Nel doppiaggio c’è dunque cura e attenzione per la dimensione uditiva del film, che costituisce l’unico sinestesismo ricercato in partenza da chi l’ha concepito e diretto. Cura e attenzione totalmente assenti nel sottotitolo, in cui la dimensione sinestetica viene ignorata, spingendo anzi lo spettatore a obliare quanto va ascoltando in sala e costringendolo piuttosto a raddoppiare la sua quota di attenzione visiva (essendo proiettati contemporaneamente sullo schermo tanto le immagini quanto le battute).
Eviterò di parlare di recitazione, perché non ne capisco niente. Mi limiterò a sfiorare l’argomento rilevando, da semplice spettatore, che in Italia a doppiare buoni attori ci sono di norma buoni attori (Giancarlo Giannini non lo definirei esattamente un cane).
Abbiamo quindi appena stabilito che la fedeltà all’originale non può essere criterio per preferire il sottotitolo e ci deve anzi far preferire il doppiaggio.
Veniamo al secondo, classico cavallo di battaglia dei fautori dell’originale:
a guardare i film in lingua originale si imparano le lingue.
Verità inoppugnabile, di cui però nulla ce ne può fottere in questa sede. Vediamo perché.
In base ad essa, staremmo infatti attribuendo un diverso significato al nostro avverbio meglio, stabilendo che la qualità che rende migliore guardare un film in originale è la sua capacità potenziale di insegnarci le lingue. Ciò, pur essendo un criterio valido, risponde a un uso utilitaristico della pellicola, per nulla aderente allo scopo artistico-ricreativo per cui viene di norma concepito un film (ve l’avevo detto di stare attenti sopra).
Il cinema non fu inventato da Rosetta Stone, bensì dai fratelli francesi August e Louis Lumiere, passati alla storia per aver donato al mondo la settima arte, non il settimo metodo De Agostini.
A riprova, è forse bene ricordare che il cinema era muto, e la questione della lingua originale non si poneva (e non si pose per moltissimo tempo). Con l’avvento del sonoro, osteggiato da molti, e che rivoluzionò totalmente l’arte, l’aspetto visuale continuò tuttavia a essere prevalente su quello uditivo, tanto che la direzione della pellicola viene ancora oggi affidata al regista, cioè a colui che stabilisce le inquadrature, mentre non si ha notizia di film diretti da ordinari di filologia moderna.
Dire che con i film in originale si imparano le lingue è una tremenda ovvietà che nulla a che vedere con la fruizione del cinema. Il cinema viene fatto per essere visto, mica per imparare l’inglese. Io stesso, che insegno italiano agli americani, considero il film uno strumento didattico eccezionale. Ma è un uso strumentale del film. Non l’uso per cui il film è concepito. Sostenere il contrario sarebbe come dire che la macchina serve per stendere i sedili recrinabili e fare sesso, e non per spostarsi da un posto all’altro. Allora se uno guarda un film per imparare la lingua fa benissimo a farlo, ma sono solo fatti suoi (e secondo me è anche bene che non lo dica al regista, che ci rimane male). Del resto un film lo si può pure usare come sottofondo per stirare le camice, o metterlo sotto alla gamba di un tavolo che traballa. Se invece si guarda il film per godersi il film, ed esistono strumenti che ne rendono possibile la fruizione senza inciampi e distrazioni (si noti, en passant, che parecchia psicologia considera la lettura come l’esatto opposto dell’osservare una immagine, e che dunque col sottotitolo si innesta una frizione cognitiva che sarebbe difficile non considerare un disturbo alla fruizione) perché non sfruttarli?
Spesso dall’osservazione che tramite i film in originale si imparano meglio le lingue, si fa discendere il seguente, pericoloso corollario:
infatti in Italia sono in pochi a parlare le lingue, e uno dei motivi, se non il principale, è che qui i film arrivano doppiati.
La consequenzialità è logica solo in apparenza, ed è per questo particolarmente odiosa: subdolamente, si prova a far valere un supposto criterio antropologico, ammantato di pseudo-scientificità, secondo cui i popoli che ricorrono al doppiaggio lo fanno perché spinti da alcuni lombrosiani difetti endemici: gli italiani sono pigri, i francesi sciovinisti, etc. Mentre i popoli che ricorrono al sottotitolaggio sarebbero attivi ed esteroflessi. Una minchiata col botto.
Inglesi e americani, che sottotitolano a più non posso, sono abbastanza pigri con le seconde lingue (e pigri è un eufemismo, se si guardano le percentuali di abilità degli studenti universitari), e per quanto siano le società più melting pot in assoluto, la percentuale di pellicole straniere che giunge in quei luoghi sarebbe stata imbarazzante perfino per il regime fascista in piena propaganda autarchica. Sarebbe inoltre assai agevole sostenere che, essendo il doppiaggio uno sforzo culturale notevole, la pigrizia dei popoli sottotitolanti consisterebbe proprio nel non doppiare. Quindi per favore. Spostare la questione al livello infimo di una sociologia alla c’erano un italiano, un inglese e un tedesco è meschino e avvilente. Specie per gli italiani, che nel doppiaggio eccellono, e per una volta non si meritano di fare la figura dei peracottari.
Il piano su cui si può accettare il discorso è unicamente estetico.
Su questo piano, un film è fatto per essere visto e ascoltato, non letto. Non ci piove neanche una goccia.
Sul fatto che sia doppiando, sia sottotitolando si perda comunque qualcosa, e che decidere cosa perdere, preferendo l’uno o l’altro, sia questione arbitraria, è quanto si illustra nei prossimi paragrafo.
Torniamo alla fedeltà. Parecchi scelgono di guardare un film in originale solo quando sono in grado di comprendere la lingua originale del film (e qui c’è già una pecca di coerenza. Ma è ovvio che ci sia visto che nessuno parla tutte le lingue, e dunque nessuno può sostenere che sia meglio in generale guardare i film in originale). Esempio:
parlo bene l’inglese, i film in inglese li guardo in originale.
Ottimo. È una scelta sottoscrivibile. Con alcuni emendamenti, perché sennò è da nazisti.
1. Esiste gente che non parla le lingue, quindi per favore, la versione doppiata facciamola comunque. Oppure chiudiamo tutti quelli che non hanno potuto permettersi un soggiorno all’estero, o avere la tata madrelingua, o studiare con un personal tutor per anni, in un cinema-lager dove promettiamo fraudolentamente di proiettare un film doppiato e poi invece apriamo le docce a gas.
2. Se non si è perfettamente bilingue, anche chi parla alla perfezione la lingua originale del film che visiona si perde qualcosa. Garantito al cento per cento. È impossibile che non vi perdiate niente. Qualcosa che vi sfuggirà, nel film, c’è comunque. E non come accade anche in italiano (“Aspe’, che ha detto, che non ho sentito?”), ma proprio in termini di comprensione linguistico-culturale: in ogni idioma c’è una quota di cripticità che rimane impenetrabile (lo sa ogni docente di lingua due) meno piccola di quanto presuntuosamente un buon parlante è di solito convinto che sia. Allora perché rinunciare al lavoro fatto da esperti, che hanno studiato la pellicola apposta affinché si possa non perdere nulla di quel film, neanche una virgola, neanche una parola?
Se pensate che a questa domanda sia sottesa la stessa pigrizia, tipicamente italica, per cui è sempre meglio se le mutande me le lava la mamma, non avete molto equilibrio. Si tratta infatti di due pigrizie totalmente diverse: lavare le mutande è operazione che si apprende a compiere in cinque minuti. Imparare lo slang americano dei neri o dei creoli di uno dei tanti sobborghi di New Orleans richiederebbe una serie di studi preliminari in loco, a metà tra l’antropologia e la filologia, che non sempre uno può permettersi prima di comprare il biglietto del cinema (che già costa caro di suo).
A questo punto i due argomenti-dogma con cui abitualmente si ha a che fare quando scoppiano le polemiche su questo tema, sono stati, anche se sommariamente, affrontati. Naturalmente, ognuno rimarrà della sua opinione. Ma, visto che ci siamo, tengo a compromettere definitivamente la mia già scarsa reputazione e dire, spostandomi un po’ di settore, altre due cose impopolari. Lo faccio con un duplice intento: quello di lavarmi lo stomaco, e quello, più importante, di confermare a chiunque avesse avuto la bontà di leggermi fino in fondo, che quelle esposte sopra sono nient’altro che opinioni personali, argomentate, ma pur sempre arbitrarie tanto quanto lo sono le vostre, e che l’unico scopo dello scritto era quello di rivendicare pieno diritto di cittadinanza nel consorzio degli esseri senzienti anche per coloro che, come me, sono a favore del doppiaggio.
Ho tradotto libri dall’inglese, e ancora lo faccio. Non sono malaccio. Ho conosciuto, nel settore, mostri di bravura, che ho invidiato fino a tingermi in viso di un verde Stabilo Boss. Posso affermare con fondate ragioni di essere a conoscenza di casi in cui la traduzione italiana è un capolavoro almeno tanto quanto lo è il testo originale. La versione di Barney, per dirne uno eclatante (tradotto in italiano da un eccezionale Matteo Codignola) ha perfino qualcosa in più rispetto all’originale di Richler. Una brillantezza diversa, a cui per buona parte si deve la fortuna particolare che il libro ha avuto in Italia.
La seconda cosa impopolare e fuori tema è questa: le serie tv americane fanno cacare. Quasi tutte. Sentire e leggere che le serie tv americane sono ormai la vera unica forma d’arte cinematografica fa veniri i chianciri. È un altro dogma hipster a cui fa spacchioso aderire, e non lo confuto solo perché sono stanco. Californication è una cacata pazzesca tanto quanto lo fu per Ugo Fantozzi la Corazzata Potemkin. E ora, che il gran lup man mi licenzi pure dalla sticchiuseria.