La scoperta dell’alba
Cosmonauta l’ho visto quattro volte, senza mai smettere di amarlo (quattro volte lo stesso film equivale alle nozze d’oro con un coniuge). È un film piccolo, candido e innocente, e adesso dimostro con un sillogismo che
essendo la tenerezza una cosa difficile da maneggiare in un film (o in un racconto, o nella vita)
essendo quel film un film che la maneggia con maestria
essendo la maestria caratteristica precipua del maestro
essendo un regista che fa un film d’autore spesso chiamato anche maestro
allora
Cosmonauta è anche un film d’autore
(questa cosa del sillogismo l’ho imparata a fare con i quiz del concorso insegnanti, quindi magari non è venuta benissimo).
È per amore di questo film che ho preso la decisione, storica e sofferta, di andare a Catania apposta per vedere La scoperta dell’alba.
Catania non è qua di fronte, sono sessanta chilometri di autostrada, e io applico a tutti i luoghi che non si possono raggiungere col vespone la seguente policy: non ci vado.
Però si sa che l’amore fa fare minchiate: si diventa incoscienti, si commettono imprudenze, gesti inconsulti.
Io ne ho compiuti tre:
– Mi sono recato nel centro di Catania
– Di sabato sera
– A bordo di un autovettura
Non voglio che si ammiri il mio sprezzo del pericolo, non lo scrivo per vantarmi della bravata. La mia testimonianza possa invece dissuadere i più impulsivi da simili intemperanze: non fatelo. Non mettete in gioco la vostra vita per un film.
Del resto, di fronte a un fan che sia davvero motivato, non c’è raccomandazione che tenga: quando mai l’amore ha temuto i draghi?
Dovrebbe allora temere le anguille degli ambulanti al ponte Primosole? O il ceffo galeotto dei parcheggiatori abusivi di corso Sicilia? O le urla belluine degli adolescenti intorno a piazza Stesicoro? O i lapilli di brioscina Dais sparsi nell’aere di via Umberto da primitivi mangiatori/ruttatori di frullati alla Nutella? O i decibel neomelodici sprigionati dalle macchine cinquanta nei loro danzerecci ingorghi di via Dusmet? O i miasmi delle braci su cui sfrigolano nobili destrieri, ridotti a macinato per polpette da genti ferine e perennemente intente alla manducazione? Dovrebbe, certo che dovrebbe.
Ma Amor vincit omnia, dicevano i latini, e tradotto significa: all’amore gliela puoi solo sucare. Ecco perché, fino alla soglia del cinema King, il mio incedere non ha conosciuto esitazione, lesta la mia prora a solcare il periglio.
Proprio a tale andatura spedita devo però l’errore.
Giunto al cinema con oltre mezzora di anticipo, ho spigolato le recensioni, fino ad allora evitate per non guastarmi la sorpresa. E lì l’epifania.
Perché l’amore vince tutto, sì. Ma con Veltroni ce l’appizza.
Soggetto tratto da un libro di, recitava senza vergogna la locandina. In coda per il biglietto, i miei sentimenti per Cosmonauta vacillavano, e già mi prendevo a tumpulate sulla fronte, biasimando la mia stessa avventatezza e cercando di imprimermi nel cervello i seguenti tag a futura memoria: Veltroni. Libro. Film tratto da. Viaggio fino a Catania. Controllare sempre prima di. Morte buttana.
Preda dello sconforto, elucubravo che forse l’amore vince tutto, ma solo perché bara.
Quindi senti, mio adorato Cosmonauta, io me ne fotto che tu sei l’amore: ora mi dici “mi dispiace” qua davanti a tutti. E mi paghi pure la benzina del ritorno.
Usa la forza, ho invece bisbigliato a me stesso quando s’è trattato di tirare fuori i sette euro del biglietto. Qualcuno, forse il Destino, per ragioni superiori che a te non è dato intendere, ti ha condotto fin qui. Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non ci scassare la minchia: paga ed entra.
Aprire la porta che introduce alla sala due del cinema King è in realtà varcare la soglia di un passaggio arcano, che disloca in un altrove imprevisto: entri e sei dentro un DC 9 in fase di rullaggio. Ci sono due file di poltrone, una a destra e una a sinistra, la prima a tre, la seconda a due posti, con in mezzo un angusto corridoio e la hostess che ti indica la uscite di emergenza. Chi siede all’esterno beneficerà della vista finestrino e guarderà dunque il film, chi siede all’interno invece fisserà per due ore una colonna in calcestruzzo. Essendo la compagnia una low cost (sette euro per un biglietto aereo alla fine sono pochi), e non essendo per tanto i sedili assegnati, il posizionamento viene risolto da una cruenta lotta tra spettatori, in cui il più debole soccombe (o si contenta della colonna). Aver guadagnato una buona visuale non è da ritenersi conquista definitiva, poiché sempre può sopraggiungere uno spettatore più grosso a scalzarti via, perfino a film iniziato. Ciò spiega il cipiglio che avevo notato in chi defluiva dalla sala a termine dello spettacolo precedente: sguardo in cagnesco e sembiante atteggiato in una paurosa smorfia di difesa.
Durante la proiezione cui assisto io, invece, l’atmosfera malinconica e un po’ trasognata della pellicola finisce per ingentilire la jungla. I volti si distendono, e tutti precipitiamo verso una generica commozione, specie quando compare sullo schermo il modernariato primi anni ottanta (l’enciclopedia “I quindici”, il Super Simon, la tutina per l’aerobica à là Sidney Rome).
Ora, se uno non sapesse che dietro tutto questo c’è Veltroni, cederebbe con gusto all’amarcord. Ma siccome lo sai, ti metti subito a controllare se nella tasca del sedile anteriore ci sono i sacchetti per il vomito. A metà primo tempo ti accorgi che il film non decollerà mai (mentre magari la saletta sì).
La storia mescola, in un frullato che più Veltroni non si può, Ritorno al futuro con La seconda volta, la favola magica (con tanto di dispositivo dell’oggetto mediatore: il telefono di bachelite) con la cronaca e la storia del paese, gli ideali pop con gli ideali politici, e insomma, dopo che lo sai, pensi tutto il tempo: ma questo è Veltroni. Anzi nemmeno: questo è Guzzanti quando fa Veltroni e dice che vuole zigo zago per alleato.
La regista, gli attori, i dialoghi, tutto il film fa i salti mortali per farti dimenticare il libro da cui è tratto, dimostrarti che lo si è migliorato, epurato dai cliché che lo viziavano, tenendo il buono e scartando via il cattivo. E sì, alla fine ci riesci pure a goderti questo film.
Ci riesci nonostante quegli sforzi finiscano per sottolineare proprio ciò che vogliono rifuggire (cioè Veltroni). E quindi ti chiedi: ma perché una regista così brava si è voluta andare a impelagare con questo soggetto tanto difficile da sbrogliare? Sarà mica pigra? Su un argomento come questo poteva scrivere una storia tutta sua, originale, e invece ha preferito aggiustarne una già scritta da un altro. Forse è che Nicchiarelli e Veltroni hanno un immaginario simile, toccano corde vicine (anche se, per fortuna della regista, in modo diverso) e quindi magari è proprio per questo che lei si è innamorata di quel libro. E allora sì, se è stato amore tutto torna. Perché come si è dimostrato all’inizio, l’amore fa fare sempre minchiate.