Olio che cade a piazza Archimede
Quando c’è vento piazza Archimede è un vortice. Colpa della forma. Piazza Archimede è un trapezio, ma sembra un cerchio perfetto. Da giù, da piazza Pancali, è una pallina di gelato fatta col porzionatore. Un po’ fuori misura rispetto al cono, se ne cola giù lungo via Dione. Le piace far sembrare storto corso Matteotti. Piazza Archimede è dispettosa. Nasce squadrata, vuole essere tonda: lo odia quel rettilineo tracciato con le ruspe. Per questo quando c’è vento gira così forte. Fa le bizze. Si contorce. Stesa sul pavimento, nero di lava, è un disco di vinile deformato dal sole. Oscilla. Imbarca acqua dalla sua stessa fontana. Viene il mal di mare. Piazza Archimede gira a quarantacinque giri. Ma è un LP. Ha un sacco di solchi. Larghe basole ai piedi dei palazzi. Brani così lunghi che ci puoi passeggiare. Un marciapiede a ciambella circonda la fontana. Evita che anneghi. È l’ultima traccia prima dell’etichetta. Alta, femmina. Dentro a un cerchio dove pure l’acqua diventa rotonda. Lippo su marmo. Verde su bianco. Trascuratezza. Forse. Sì. Un po’. Ma ci sta che è una sciccherìa. La bellezza, disposta a raggiera, per farsi sporcare dal mondo. Sono questi cerchi concentrici a farla girare veloce nel vento. Se è inverno, se l’aria è bella tersa, se le folate di tramontana arrivano dalla direzione giusta, la luce suona. Diana si dimena in una danza agreste. I valzer aristocratici li lascia ai Montalto, ai Gargallo, ai Pupillo. All’aperto, selvaggia. Freddo manco ne sente. Si alza la gonna, si scatena in un beffardo can can. Mostra il culo agli autobus dei turisti. Per chi mi avete preso? Per una fontana classica? Si prende gioco di tutti. È bisbetica. È tracotante. Mi fa un’antipatia. Se l’è presa con la forza, questa piazza intitolata a un greco tutto cervello e niente muscoli. E chi ha il coraggio di dirle niente? Ha le frecce, lei. Ha quei mostri feroci ai piedi. Li tiene a fatica, quasi le strappano il guinzaglio. Con quel vento, poi. Ogni volta che mi sento audace, ogni volta che l’istinto ha il sopravvento, ogni volta che mi parto di slancio per andarle sotto, per prenderla a testate, mi ci rompo le corna, su quel marmo. È il vento. Fa i mulinelli. L’acqua degli spruzzi mi sbuffa addosso tutto il suo disdegno. Mi infracida di sputi. Mi lava via la superbia. E sono di nuovo piccolo e suddito. A girare nel suo cerchio.