Sono più progressista se voto un gay o se non lo voto?
Non mi ricordo più se questa cosa la diceva Gaetano Mosca o la diceva Pareto o Weber o Durkheim o un altro di questi qua, comunque il fatto è che in Sicilia (cose turche) abbiamo eletto un governatore omosessuale dichiarato (Rosario Crocetta), e tra qualche giorno in Italia ci sono le primarie del centrosinistra, con la possibilità concreta (cose dei pazzi) di eleggere un candidato premier anche lui omosessuale dichiarato (Nichi Vendola).
Ecco, mettiamo che uno è un progressista, almeno in ambito civico sociale, e voglia scegliere il proprio governante in base a queste sue convinzioni progressiste, e che quindi auspichi da costui tutta una serie di passi in avanti per questo paese, che so: una seria laicizzazione dello stato (con tutto ciò che comporta su temi come la genetica, la possibilità di disporre del proprio corpo, l’eutanasia, l’uso di certe sostanze, le terapie del dolore, l’aborto), il superamento del modello e del concetto di famiglia tradizionale, l’inquadramento giuridico per quelle forme meno stabili come convivenze e unioni di fatto, e insomma si augura che il suo governante affronti da innovatore tutti quei temi in cui la politica potrebbe finalmente intervenire con decisione, prendendo una posizione netta, contribuendo a un cambio di mentalità dei cittadini e interrompendo la conservazione di modelli oramai antiquati, se non oscurantisti.
Se uno ha in mente di assegnare il proprio voto a un candidato che si batta per tutto questo, allora attenzione perché forse (il forse significa che lo so che sto sparando minchiate quanto una casa) non è il caso di eleggere un candidato omosessuale. Non in questo paese, almeno.
I candidati dichiaratamente omosessuali (stando a quanto visto finora) in piena obbedienza a quelle teorie sociologiche secondo cui l’ultimo soggetto a essere ammesso in un gruppo tende a essere quello più reazionario (quella dinamica sociale, insomma, per cui un siciliano che diventa residente a Bergamo prende a votare Lega Nord e fare scorpacciate di risotto allo zafferano, o un immigrato portoricano negli Stati Uniti che prende finalmente la green card subito comincia a vestirsi da cow boy, ballare il country western e battersi per la chiusura immediata delle frontiere), sono molto più preoccupati di mostrare continuità che rottura. Dimostrano cioè più che la voglia di superare l’attuale società, quello zelo caratteristico degli ultimi arrivati di dirsene membri a pieno titolo, dentro i ranghi, e – per quanto questa società sia la stessa che si dimostra spesso così vetusta da respingerli – nella loro campagna elettorale (cioè nell’immagine di se stessi che loro intendono presentare ai cittadini), ostentano una loro caparbia appartenenza a essa nonostante quei rifiuti, calandosi nel ruolo di chi soffre nel non poter partecipare a certi riti ancestrali di ammissione, come ad esempio il prendere la comunione o il contrarre matrimonio, puntando più sull’intenerimento che sulla rivendicazione.
Vendola e Crocetta hanno fatto entrambi professione di cattolicesimo praticante. Entrambi caldeggiano, come molti altri esponenti politici gay, il riconoscimento del matrimonio tra individui dello stesso sesso, richiamandosi comunque a un tipo di società basata su quella istituzione tradizionale e strettamente codificata che in tutto il mondo appare in profonda crisi e che chiede a gran voce di essere messo in discussione, se non definitivamente superato. Il candidato più a sinistra tra i candidati alle primarie del centro sinistra, poi, richiesto su chi sia il personaggio che lo ispira nella sua azione politica, ha addirittura fatto riferimento a un cardinale.
Il rischio è quindi che (forse male interpretando le istanze della comunità omosessuale di cui sperano di farsi interpreti) i candidati gay promuovano politiche sociali solo in apparenza progressiste, in realtà ancorate a modelli atavici. In altre parole, sempre per dirla con la teoria delle élite di Pareto (o di Durkheim o di chi era lui), nella campagna elettorale dei candidati omosessuali traspare in filigrana molto più il desiderio di uniformare la società al modello imperante (allo scopo di conservarla) piuttosto che quello di ibridarla innestandovene uno nuovo (allo scopo di cambiarla). Si tratta, pare, di un meccanismo umano, e probabilmente è vero che non sarà possibile avere innovazione su questi temi se prima non si avrà la legittimazione piena di alcune minoranze, come ad esempio quella omosessuale.
Questo significa però che siamo ancora a questo: a una complessiva arretratezza culturale del paese, che pur essendo abbastanza maturo da potersene infischiare delle preferenze sessuali di chi elegge, si dimostra incapace di prescindere da queste nel valutarne le idee. In altre parole, ce ne frega poco se Vendola vada a letto con un uomo o con una donna, ma ci importa parecchio che Vendola faccia passare lo sposarsi e il prendere la comunione come una cosa progressista e di sinistra. In questo senso, un omosessuale alla guida del paese (o della regione) potrebbe addirittura rivelarsi d’ostacolo per un reale cambiamento di prospettiva su certi temi. Questo perché in un paese strambo e paradossale come il nostro, dove la politica è la prosecuzione della simpatia con altri mezzi, ed è fondata sulla preoccupazione di piacere a tutti ad ogni costo, ci si sente costretti a dirsi conservatori anche quando si vuole innovare. Così va a finire che temi come questi, se proprio bisogna promuoverli, è sempre meglio farlo appiccicandosi in faccia un bel paio di baffi neri. E magari accompagnandosi anche con qualche nota di mandolino.