La festa più bella
Il 25 Aprile è la festa più bella di tutte, perché come nessun’altra lascia libero a ognuno il suo senso. Può essere quello dello studente spensierato, allegro per un giorno libero di primavera; quello della memoria repubblicana di cattolici e comunisti sui monti; o anche quello tuo, o quello mio.
C’è questa immagine – che sicuramente ricordo male e mi corrigerete – di Italo Calvino nel Sentiero dei nidi di ragno in cui si racconta del partigiano taciturno con le mani morbide come il pane, che trasmette non solo l’idea che nella vita si devono fare sacrifici, che pure è vero (“scarpe rotte, eppur bisogna andar”); ma che, come chi deve imbracciare un fucile con le mani di pane mentre odia la guerra, nella vita può succedere di dover fare delle cose che ci fanno schifo, ma bisogna farle perché ci tocca, perché non abbiamo alternative; e questo senza eroismi o trionfalismi, senza illudersi che possa esserci una assoluzione del Tribunale della Storia a mondare la natura inumana e inaccettabile di ogni guerra. Sarà per mia ignoranza, che qualcuno magari colmerà, ma non conosco altre epiche nelle quali ci sia abbastanza spazio da mettere assieme il senso dell’essere schierati nel giusto (che è tipico di ogni epica di ogni guerra) con l’assenza radicale – più che il rifiuto – del grottesco armamentario guerresco patriarcale, come direbbe oggi qualche millennial.
Che poi naturalmente so bene che questo mio 25 aprile sarà biasimato da tanti, che quanto non capisco niente! Da quelli che citano il Gramsci da cartolina; chi denuncia il fascismo ogni tre giorni da quando il fascismo è caduto; chi ha bisogno del 25 Aprile per sottolineare la propria avversione al governo democratico di turno; da chi con freddezza ricorda gli americani e il loro intervento senza il quale saremmo finiti male, e comunque stiamo finendo male. Siamo pari: ci critichiamo a vicenda.
E il 25 Aprile è la festa più bella anche perché contiene accanto al senso soggettivo, quello comune. Ed è questo teatro delle acrimonie inconciliabili ad essere il senso comune repubblicano della nostra libertà, il modo in cui il nostro popolo è stato capace di affermare la propria libertà dentro il mosaico europeo delle libertà raggiunte. La nostra è una libertà nella quale c’è spazio, a ben pensarci, per una straordinaria varietà protagonista di opposti, per cui l’unico vero tratto comune e unificante del 25 Aprile è la prevalenza della lettura personale, nel massimo paradosso per cui ognuna delle tante letture e sfumature è vissuta (non solo presentata!) come l’unica degna di essere collettiva. Persino le letture che denegano il 25 Aprile lanciandosi in improbabili date alternative hanno questa pretesa, contribuendo dunque a festeggiarlo loro malgrado.
Eppure, questa eccezionale nostra libertà passa a volte quasi in secondo piano: eccezionale nel senso proprio del termine: eccezione, breve sussulto di tempo in una eternità umana di dipendenza e schiavitù. Eccezione talmente potente da spingerci a criticarne continuamente i difetti e le mancanze, compiendo dunque proprio con questa critica la sua più significativa quotidiana celebrazione.
E allora il 25 Aprile, quello di oggi come quello di sempre, è la giornata più bella, da festeggiare e proteggere, perché quello che possiamo essere nel modo in cui ne siamo capaci, la possibilità stessa di essere come siamo capaci, l’abbiamo ricevuta non meritata. Pensateci: è un regalo a noi bambini, e non c’è nulla che fa sorridere e essere felici come un dono gratuito, e che regalo! E poi, essendo anche diventati adulti, tocca ora e sempre a noi proteggere questa felicità.