La battaglia davanti a noi
Il Sì ha perso molto nettamente, ma questo risultato secondo me c’entra poco con gli altri avvenimenti politici dell’anno, dalla vittoria di Brexit a quella di Trump. A differenza di questi precedenti, se qualcuno avesse chiesto a un politologo, a un giornalista, a una persona mediamente informata: «quale è il risultato più probabile di un referendum promosso da un governo in carica, dopo tre anni di riforme sociali importanti, con tutte le altre forze politiche contrarie, su un tema costituzionale?». La persona interrogata, oggi come dieci anni fa, avrebbe previsto una sconfitta, e avrebbe avuto ragione. Naturalmente, il senno del poi è sempre inutile, ma questa considerazione serve a inquadrare la sconfitta del Sì nelle giuste proporzioni. Non è stato un evento imprevedibile, ma un cigno candido, candidissimo.
Non deve neanche stupire l’opportunismo egoistico dei vari D’Alema o Bersani, chiaramente ininfluenti sul risultato finale. Ricordiamo un precedente molto simile: Fabius, già primo ministro di Mitterrand dell’ala più riformista del partito socialista, nel 2005 si schierò contro il referendum per la Costituzione Europea. Era uno schierarsi, all’alba della terza età, contro la sua storia e sommando il suo voto ai populismi antieuropeisti, che gli permise di intestarsi un pezzetto di vittoria (il referendum non passò di pochissimo). Usare l’Europa come una clava contro il governo Sarkozy fu un atto di grande irresponsabilità di cui paghiamo tutti il prezzo ancora oggi, ma Fabius è riuscito a fare, passati i 70 anni, altri due anni da ministro degli Esteri di Hollande. Il livello di responsabilità di quella generazione di centrosinistra in Europa e nel mondo (forse possiamo metterci anche Hillary Clinton che in 30 di potere non ha mostrato nessun tipo di generosità ma soltanto la ricerca dell’affermazione personale) la conosciamo bene, nessuna sorpresa ma anche basta parlarne.
Come ogni referendum, la vittoria ha molti padri perché è il risultato di tanti ruscelli in un unico fiume. Esiste una componente maggioritaria di populismo nichilista, su questo non c’è dubbio, e ci tornerò. Ma per quanto mi riguarda, la sconfitta va riconosciuta innanzitutto rispetto a chi sosteneva argomenti diversi dai miei ma dotati di dignità intellettuale. Anche perché quello era l’elettorato che avremmo dovuto convincere. Ha prevalso l’idea che una semplificazione in questo momento non fosse opportuna e forse rischiosa. L’idea che bisognasse mantenere l’impianto attuale – che tutto sommato ci ha fatto vivere per 70 anni – anziché cambiare e rendere le istituzioni più asciutte. Ha prevalso l’idea che una maggiore semplificazione portasse più rischi che benefici. Ha prevalso un conservatorismo istituzionale rispetto alla modifica proposta. Ha prevalso la sensazione che nell’incertezza globale cambiare ora così profondamente non fosse una buona idea. Questa è l’opinione che ha prevalso, io ne ho sempre riconosciuto la coerenza, ma ora la discussione su questo tema è finita: e per fortuna abbiamo strumenti anche per finire le discussioni. Ovviamente questa opinione si è sommata a motivazioni meno sensate e meno nobili, che oggi allargano lo spettro per attribuire qualsiasi significato a questo voto, ma questa è l’essenza del meccanismo referendario, che sia imperfetto e scivoloso lo sappiamo bene da circa duemila anni.
Chi oggi grida alla vittoria in modo più rumoroso sono i demagoghi nostrani. Una delle cose positive dell’ultimo mese di campagna elettorale è che ha chiarito definitivamente, al di là dell’episodio referendario, quale sia la battaglia politica che ci aspetta nei prossimi mesi e nei prossimi anni. La vittoria di Trump, le reazioni di Grillo, Salvini e Le Pen e, più recentemente, la notizia dei legami sostanziali tra il movimento di Grillo e la Russia, prefigurano un nuovo scontro davvero globale, anche se giocato stato per stato.
Un sfida politica dura, tra visioni del mondo diverse, tra chi ha fiducia nelle persone e nella scienza, e chi ha fiducia in niente – forse neanche in se stesso. Tra chi è preso da un’ansia di distruzione e chi vuole continuare a costruire. Tra chi lavora sistematicamente per fare leva sugli istinti più egoistici e chiusi delle persone – istinti da cui nessuno è immune – e chi invece crede e vuole costruire su altri istinti, altrettanto emotivi e naturali, di apertura, di curiosità, di altruismo. Io non credo che sia una battaglia tra la razionalità e l’irrazionalità, perché c’è profonda razionalità nella reazione becera e razzista, purtroppo, e c’è razionalità anche nel complottismo: posta così serve solo a chiudere la porta al dialogo. Io non sono interessato a un dialogo con i plutocrati seminatori di zizzania e i loro adepti (che sono davvero poche persone, messe al vertice di fenomeni largamente mediatici, il “Movimento 5 Stelle” non è affatto un movimento, quella parola è marketing), ma invece sono interessatissimo a parlare con chi li ha votati o pensa di farlo, perché la rabbia, come ogni altro sentimento umano, si può coltivare o fare avvizzire. E noi dobbiamo coltivarne altri, credendo nelle persone, nella scienza, nella buona fede, contro la chiusura profondamente reazionaria che sta emergendo ovunque.
Rispetto alla battaglia politica che si sta prefigurando, dunque, la sfida è appena cominciata. Paradossalmente, proprio perché è stata una vittoria netta del No, rispetto alla battaglia contro i demagoghi, minoranza rumorosa, reazionaria, pericolosa, si tratta di una sconfitta solo parziale. Sarà una cosa lunga.