Le richieste dell’India al WTO
L’introduzione di Roberto Azevedo, il diplomatico brasiliano che da tre mesi è Direttore Generale del WTO, è stata molto asciutta. Amedeo Teti, del Ministero dello Sviluppo e decano di queste conferenze ministeriali, sottolinea la differenza che passa con la verbosità del predecessore Pascal Lamy, che di accordi non ne chiuse nessuno. Il direttore generale non usa giri di parole: «Siamo vicini, ma non ancora alla meta, sta a voi ora Ministri». Il “pacchetto” di Bali ha tre capitoli da considerare assieme: quello per lo sviluppo dei paesi più poveri è già chiuso. Quelli sull’agricoltura e sulle procedure doganali invece no, con l’India in una posizione estrema sul primo: chiede che lo stoccaggio di beni agricoli acquistati dallo stato a fini di sicurezza alimentare – illegale fino a oggi – sia consentito per sempre. La legalizzazione indefinita dell’accumulo su grande scala di beni agricoli non trova consenso neanche tra gli altri paesi emergenti per gli effetti di distorsione dei prezzi che genera, danneggiando gli agricoltori di paesi terzi. Una mediazione sembra possibile identificando alcuni anni “di tolleranza”, al termine dei quali riaprire la discussione. Se si fallisse tuttavia, l’irrigidimento dell’India (sorto a margine di una lunga stagione elettorale interna) raggiungerebbe lo scopo opposto rispetto alla sua teorica ragione. Infatti, affosserebbe i negoziati multilaterali tra i 159 membri WTO aprendo una stagione in cui i paesi negozieranno solo a gruppi ristretti, come stanno già facendo gli USA su due tavoli: uno con un gruppo di stati del Pacifico e l’altro con l’Europa. Se fallisce Bali ai paesi poveri verrà meno l’unico forum negoziale in cui, come si vede anche dalle bozze di accordo, possono fare sentire le proprie ragioni con efficacia. Perché al WTO ogni Paese ha un voto e quindi tutti gli stati, grandi e piccoli, hanno uguali diritti.