Perché gli accordi di Bali sono importanti
A Seattle, nel 1999, il movimento dei no-global portava nel cuore dell’America una dura manifestazione contro la conferenza del WTO, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, simbolo della liberalizzazione degli scambi. A Kiev, oggi, gli ucraini manifestano, al contrario, per far cadere il governo che, rispondendo a pressioni russe per le forniture di gas, ha fermato il trattato di libero scambio già concluso con l’Unione Europea. Le cose cambiano anche perché l’esperienza insegna.
Dal 1990 a oggi, per effetto della vituperata globalizzazione, oltre un miliardo persone è uscito dalla povertà; nei paesi emergenti una classe media di centinaia di milioni di famiglie insegue i propri desideri e le proprie aspirazioni. Guardiamo da noi: oltre un terzo del nostro prodotto interno dipende dalle esportazioni. Non fosse stata per la loro crescita, costante, che dipende sia dalla bravura delle nostre aziende che dalla domanda internazionale, la crisi degli ultimi anni sarebbe stata molto più nera: dall’export dipendono anche le speranze di una vera ripresa.
Ecco perché la conferenza ministeriale del WTO che si apre oggi qui a Bali, in Indonesia, è così importante. Perché dalle evoluzioni delle regole del commercio internazionale dipendono sia gli equilibri geo-politici, sia le opportunità di crescita da noi, in patria. Il WTO funziona come un tribunale, 159 paesi aderiscono alle sue regole. Allo stesso tempo ha il compito di guidare negoziati per aumentare gli scambi, negoziati che da oltre dieci anni non compiono passi sostanziali a parte aumentare il numero dei membri. Nello stallo, sono iniziate trattative complementari tra gruppi più piccoli di paesi, tra cui spicca quella tra USA e UE. Se le conclusioni di Bali fossero modeste o irrisorie, questi nuovi negoziati da complementari diverrebbero alternativi, segnando nuovi equilibri geo-politici, oltre che economici.
Nella preparazione di Bali un accordo si è già trovato sui capitoli dedicati ai paesi più poveri e alle materie agricole (con l’eccezione dell’India con la quale la ricerca di una mediazione è in corso mentre scrivo). Si è invece più lontani da un accordo sulle “facilitazioni al commercio” che interessano i paesi più sviluppati. UE, USA, e gli altri paesi avanzati chiedono che le procedure doganali si uniformino ai principi di trasparenza, certezza di procedure, affidabilità del diritto che già caratterizzano le proprie e che invece mancano non solo nei paesi più poveri, ma anche alle potenze emergenti. È una questione tecnicamente complicata ma anche banale da capire: serve a poco la libertà di esportare vino (o macchine, o qualsiasi cosa), se poi le bottiglie rimangono ferme per mesi alla dogana. Inoltre: una grande azienda può forse far fronte a questi aggravi, una piccola o media invece spesso non può. Eccola la faccia della nostra “seconda globalizzazione”: maggiori vantaggi per le imprese piccole e medie che derivano da nuovi round negoziali.
I numeri di uno studio del Peterson (autorevole think tank di Washington) parlano chiaro: un accordo a Bali vale oltre 34 milioni di posti di lavoro che corrispondono a reddito aggiuntivo per 2,4 migliaia di miliardi di dollari, di cui il 45 per cento per i paesi sviluppati e il 55 per cento per i paesi in via di sviluppo. Abbastanza per giustificare l’impegno di questi giorni.
(Pubblicato sulla Stampa)