Dalla parte di giovani e precari
Una ragione più di altre ha sempre animato il mio impegno, da ormai molti anni: il desiderio di difendere e promuovere gli interessi della parte della nostra società più svilita, offesa e sfruttata. La generazione immolata sull’altare dell’ideologia e del benaltrismo della classe politica degli ultimi vent’anni. Oppure, peggio, consapevolmente spremuta per tenere in piedi un’economia altrimenti al collasso. Parlo delle persone più giovani di me, quelle che da quindici anni vengono falcidiate con contratti precarissimi, senza un qualunque ammortizzatore sociale o un aiuto a trovare un’occupazione; senza assistenze per la maternità, o nessuna delle tutele elementari che sono presenti in qualunque Paese europeo.
Questa è anche la prima ragione per cui sono candidato con Scelta Civica; è il motivo per cui lavoro da più di tre anni con Italia Futura, parlando e scrivendo soprattutto di questo; è il motivo per cui ho visto nel governo Monti una prima, ancora breve nel tempo ma significativa, discontinuità. Ed è il motivo per cui, in una stagione politica passata e molto diversa, persi le speranze nella possibilità del centrosinistra italiano di occuparsi – nei fatti, producendo risultati concreti, reali – di questi temi. Su questo ognuno avrà la propria opinione, la mia si basa sulla constatazione di un fallimento costruito e difeso in due decenni. Non basta dirsi a favore dell’uguaglianza e dell’equità, bisogna fare cose, o almeno proporsi politiche, che l’equità la perseguano davvero.
Ciò che è importante è avere un’idea chiara, onesta – e sì, lasciatemelo dire, anche istruita – su come scartare di lato e invertire questa patologica condotta ventennale, su come restituire (e in alcuni casi dare) speranza a una generazione incastrata per ragioni indipendenti dalla propria volontà e dalle proprie azioni da un Paese chiuso e inospitale.
Oggi, in Italia, si può portare avanti una agenda politica preoccupata dell’equità solamente se si persegue una decisa strategia di crescita economica. Riproporre spesa pubblica, o politiche industriali novecentesche, come – nelle diverse variazioni sul tema – suggeriscono a turno Tremonti e gli strateghi economici del PD significa ingannare gli elettori, nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore, rischiare di vanificare gli sforzi di risanamento finanziario dell’ultimo anno.
Per questo un programma con al centro crescita ed equità non può che prescindere da ricette ideologiche, che – indipendentemente da tutto – hanno il grave e semplice problema di non funzionare, di replicare le ingiustizie presenti. Di essere, nei fatti, un modo come un altro per conservare lo status quo, quello che sembra essere l’unica bussola nell’Italia di oggi.
E non può rinunciare a prendere esempio dai modelli europei; a trarre insegnamento da quelli che queste cose le hanno già provate, come i Paesi scandinavi, rinunciando una volta per tutte a pensare che – come, uno dopo l’altro, ci hanno recentemente risposto Massimo Mucchetti e Bruno Vespa – “sarebbe bello” ma non è possibile perché siamo in Italia, come se l’essere italiani fosse una malattia genetica (e perciò incurabile).
Non sono sicuro che sia così importante domandarsi se questa visione, di tutela concreta ai più deboli, sia progressista o conservatrice – anche se un’idea della risposta ce l’ho –, però sono sicuro che nell’attuale quadro politico c’è soltanto una formazione che ha un’idea chiara e informata sul fare, e come fare, queste cose: la nostra Scelta Civica.
Ah, poi, presto parliamo anche di diritti.