L’ultimo colpo di Blair
L’ingresso nello stadio di 50 Vespe e Lambrette è stato forse l’unico contributo italiano (a parte i nostri atleti) alla cerimonia di chiusura dei Giochi, esse però rimandavano anche alla Londra contemporanea che, sfidando luoghi comuni stratificati dalle memorie dei nostri padri, è ormai piena di motorini e biciclette che superano sia il traffico caotico che i costi altissimi del trasporto pubblico. E la Vespa è allora tanto londinese quanto il curry di Brick Lane, il Porto (infatti inventato dagli inglesi), o una qualsiasi delle decine di accenti che si sentono ogni giorno sulla metropolitana. Forse per questo le Olimpiadi hanno avuto un tale successo e sono state in grado di muovere l’entusiasmo anche dei più scettici: si sono svolte in una città che è olimpica tutti i giorni.
Una città nella quale forse sono gli inglesi non londinesi a sentirsi i più stranieri. L’organizzazione è stata talmente impeccabile da stupire. Ci aspettavamo tutti caos nei trasporti, difficoltà a recarsi al lavoro, una città infastidita da un evento alieno. Invece, l’unica differenza visibile con un agosto qualsiasi erano i cartelli rosa con le indicazioni per i siti olimpici e gli atleti e i volontari in divisa che si incontravano in metropolitana.
Andare a seguire la maratona o il triathlon – senza biglietto, sul percorso – con due bambini e un passeggino è stato semplice come una domenica al parco, anche se c’era davvero tantissima gente. La facilità apparente con cui la città ha sostenuto l’evento ha sicuramente contribuito sia a stimolare l’entusiasmo che a sostenere il giusto orgoglio british che anche la Bbc ha espresso per la riuscita dei giochi.
Al passaggio di qualsiasi atleta del team britannico si sentiva il calore del pubblico di casa, ma lo stesso calore veniva riservato al vincitore, e un tifo ancora maggiore all’ultimo – che arrancava per un infortunio o perché non ce la faceva più. Nella scelta della rappresentazione – la scelta del paradigma di Londra – queste Olimpiadi sono state anche le meno nazionaliste, quelle in cui la felicità speciale per la vittoria di un connazionale è tale perché più immediata l’identificazione con la gioia e la fatica e i sacrifici, non per la soddisfazione di aver sconfitto l’avversario. I volti più belli, per le loro storie, della performance della squadra del Regno Unito – Jessica Ennis e Mo Farah – corrispondono a questa narrazione inclusiva, in cui le origini semplici o umilissime non impediscono il successo nutrito da due ingredienti imprescindibili: l’individuo, la sua determinazione, e la squadra, il suo supporto.
Con una riflessione un po’ agostana si può dire allora che lo spirito, oltre che la concretezza organizzativa, di queste Olimpiadi, sembra l’ultima vittoria del New Labour e della sua stagione di governo in cui lo sforzo di combinare la libertà individuale con le responsabilità collettive ha raggiunto altissime vette di consenso – evidentemente duraturo al di là della congiuntura politica.
La festa olimpica non servirà a far ripartire un’economia britannica in grande affanno e non scioglie certo i serissimi problemi di democrazia e non solo finanziari, sollevati dai recenti scandali del suo sistema bancario che chiamano a una ridefinizione del suo stesso paradigma di crescita. Ha però mostrato a tutti una nazione aperta e preparata a leggere i propri errori, le proprie insufficienze e non cercare scuse per le sconfitte e gli errori. Un luogo in cui, sfidando ancora pigrizie mentali da noi molto diffuse, lo spirito di squadra è molto più forte di qualsiasi individualismo.