L’antipolitica è una patologia
Puntuale come le maree, è tornato il tema della “casta”. L’occasione è stata la bandiera bianca alzata dalla commissione Giovannini che doveva stabilire equi compensi per parlamentari e alti funzionari pubblici sulla base dei dati degli altri paesi europei. La missione era veramente impossibile, non solo per le ragioni tecniche addotte dal presidente dell’Istat: non si trovano corrispondenze precise per fare i calcoli. Soprattutto, non esistono illusorie scorciatoie tecniche a questioni profondamente politiche: in questo la vicenda della commissione Giovannini è specchio e metafora di problemi più ampi.
Le risposte tecniche o contabili, come quelle giudiziarie, alla cosiddetta “antipolitica” saranno sempre insufficienti perché le sue ragioni non dipendono soltanto dalle inchieste giornalistiche – sempre meritorie – sugli abusi o sugli eccessi. Infatti, nei Paesi dal rapporto più sano con la politica, le inchieste offrono occasioni per rinnovare il patto di fiducia, rimediare agli errori, mentre da noi hanno l’unico effetto di alimentare sentimenti antipolitici che, prolungati nel tempo, diventano naturalmente antidemocratici.
Io credo che le radici, da estirpare, dell’antipolitica si trovino nell’organizzazione della nostra economia e nel suo rapporto con i poteri pubblici. Nel secondo dopoguerra, gli enti pubblici in senso ampio – e dunque i partiti – avevano un ruolo fondamentale nel garantire il coordinamento strategico della scelte economiche, sia a livello nazionale che a livello locale e nei distretti, contribuendo a colmare i ritardi che ci separavano dagli altri paesi europei. Al netto degli abusi, che aumentarono nel tempo portando fino a Tangentopoli, è stata una funzione importante che ha consentito una crescita economica sostenuta e l’aumento del benessere di tutti. Per questo il populismo, sempre presente in ogni democrazia, non attecchiva.