Volevo dirlo a Lucio Dalla
Durante il dottorato, sarà stato il 2004, a un certo punto vivevo in un appartamento vicino a King’s Cross con una minuscola cucina e tre coinquilini tra cui la padrona di casa, una ragazza giovanissima – avrà avuto dieci anni meno di me – che ascoltava in continuazione musica hip-hop-rap, qualcosa di super-ritmato di cui ignoravo la definizione esatta. Era evidentemente musica ultimo grido, molto apprezzata dalla sua comunità di amici tutti caribe-inglesi (spero sia l’equivalente di afro-americani), che ascoltavano musica e chiacchieravano tutto il giorno. Secondo me non ballavano solo perché la cucina era veramente minuscola.
Io invece in quel periodo sentivo Dalla. Un giorno mi ero rotto i cabasisi dell’hip-hop o qualsiasi cosa fosse, e ad un certo punto dalla mia stanza ho deciso di ingaggiare una guerra di volumi, fiducioso nella potenza del mio stereo che era l’unica cosa che mi ha sempre seguito nei vari traslochi. Bussano alla porta della stanza e mi preparo a una tipica lite tra coinquilini, non ne potevo più della loro musica. Si affacciarono un paio dei suoi amici, sorridenti e con la luce negli occhi: che bello! Che ritmo! Cos’è, è nuovo?
Ho sempre pensato che mi sarebbe capitato di raccontarglielo a Dalla, e che gli avrebbe fatto piacere. Mi spiace proprio.