Altre due cose che mi ha scritto Olga Tokarczuk

La scorsa estate, in vista dell’uscita della traduzione italiana di I libri di Jakub, il romanzone di Olga Tokarczuk che ha molto contribuito a farle vincere il Nobel per la Letteratura, ho chiesto a Bompiani di poterle fare qualche domanda al Festivaletteratura di Mantova, dove è venuta a parlare del libro a settembre. Alla fine abbiamo organizzato un’intervista scritta, cioè via email, su diversi argomenti. Alcune delle risposte di Tokarczuk le abbiamo pubblicate in un articolo su come cambia la vita di chi riceve un Nobel, uscito nei giorni in cui hanno assegnato quelli del 2023. La maggior parte, a proposito di I libri di Jakub, sono in un altro pezzo, uscito oggi, sul romanzo, la storia che racconta e il suo significato oggi, a quasi trecento anni dagli eventi di cui parla.

Molto spesso quando si fanno interviste si raccolgono più informazioni di quelle che poi si usano. A volte perché per questioni di lunghezza e leggibilità di un articolo bisogna tagliare da qualche parte, altre perché alcune risposte, pur interessanti, possono essere fuori tema rispetto all’argomento centrale dell’articolo. Con le interviste via email come questa, in particolar modo se richiedono un passaggio di traduzione fatto da un’altra persona (qui Monica Wozniak), c’è l’ulteriore complicazione che non si possono fare domande di follow-up, cioè che ribattano alla risposta alla domanda precedente. Tutto questo per dire che delle cose che mi ha scritto Olga Tokarczuk me ne sono avanzate due. Riguardano alcuni aspetti della sua poetica e per questo sono interessanti (per me molto) soprattutto per chi ha già letto i suoi romanzi e pensa che Tokarczuk abbia idee interessanti sulla letteratura. Le condivido qui, con le domande.

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Il tuo discorso per il Nobel [si può leggere qui, in inglese] mi sembra tracciare un manifesto per una narrativa letteraria che voglia ancora percorrere nuove strade e continuare a occuparsi di cose davvero significative, oltre l’intrattenimento, nel mondo apparentemente più complesso e più ricco di modi di raccontare storie di oggi. Citi tra le altre cose l’emergenza climatica, che finora è stata descritta come un oggetto difficile da inserire all’interno dei romanzi perché è un concetto distante e al tempo stesso vicino, multidimensionale, poco maneggevole. Di oggetti di questo tipo però mi pare ce ne siano molti nei tuoi libri, a partire dall’ambiente, che vi compare come personaggio già dagli anni Novanta. Come si potrebbe raccontare il cambiamento climatico in un romanzo? Ci vedi del potenziale romanzesco?

«È una domanda molto interessante. Fino a oggi tendevamo a descrivere la crisi climatica usando le formule di fantascienza, creando immagini post apocalittiche. E proprio questo tipo di rappresentazione è penetrato anche nella letteratura. Però la crisi succede qui e adesso, è così violenta che non ci si riesce a distanziare da essa. Inoltre, sta succedendo su larga scala che oltrepassa le esperienze di un singolo individuo che sono il fondamento della letteratura. Non ho un’idea di come potrei avvicinarmi a questo tema. Di solito la prima ad aprire la pista è la poesia. Ma se volessi scrivere un romanzo di questo tipo, vorrei puntare a dimostrare le relazioni tra cose apparentemente lontane, perché proprio il nostro non accorgerci di questi nessi ha portato alla situazione critica. La crisi climatica è la prova che non comprendiamo il mondo intorno a noi e anche se siamo fieri dei progressi della scienza e sogniamo di viaggiare nello spazio, rimaniamo ignoranti. La stupidità umana è un tema affascinante. Forse si tratta di un meccanismo evolutivo che proprio in questa maniera porterà all’estinzione dell’homo sapiens, genere che non conosce freni.

Credo che davanti ai nostri occhi nascano nuove idee che alla fine porteranno a una filosofia del tutto nuova che ci permetterà di percepire la realtà da un’altra prospettiva e di inventare nuovi modi di agire».

Nella lunga intervista che hai fatto con la Paris Review [questa, è dietro paywall] citavi l’incoscio collettivo e fantasticavi sull’esistenza di una psicologia della letteratura. Vorrei sottoporti due casi che questa disciplina forse potrebbe analizzare. Il primo riguarda La morte in mano, il romanzo della scrittrice americana Ottessa Moshfegh in cui molti lettori hanno trovato numerose corrispondenze con il tuo Guida il tuo carro sulle ossa dei morti (l’età e il carattere delle protagoniste e il fatto che vivano sole in un luogo isolato; il fatto che entrambi i romanzi giochino con i modelli del genere giallo e soprattutto i riferimenti alla poesia di William Blake). Moshfegh ha detto di non aver letto il tuo romanzo prima di scrivere il suo e non vedo ragioni per non crederci, e a prescindere non penso si possa parlare di plagio dato che alla fine raccontano due storie molto diverse. Però le coincidenze sono affascinanti. Sapevi di questa affinità? Cosa ne pensi?

«Oh, è molto interessante. Penso che la letteratura sia una manifestazione del modo in cui funzionano la nostra coscienza e subcoscienza collettive, credo che in qualche maniera pensiamo e sentiamo in un modo comune che non è ancora stato descritto. Siamo un genere potente e aggressivo che è stato capace di trasformare il pianeta nel corso di pochi secoli e che è apparso sulla terra appena quarantamila anni fa. La letteratura intesa come narrazione è un esempio della comunicazione più sottile e raffinata: non solo mantiene in vita i miti, ma ci ricorda anche vecchie verità, esprime paure e angosce, accompagna con coraggio rivoluzionari cambiamenti storici e sociali. Non descrive il mondo direttamente, sbircia sotto la sua superficie, cercando un senso e un significato. Talvolta la gente crede che tutti questi libri e film siano solo un intrattenimento. Io non sono d’accordo. La letteratura è un’espressione della vita psicologica della comunità umana».

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Di I libri di Jakub e Olga Tokarczuk avevamo parlato anche nella puntata di Comodino di settembre.

Ludovica Lugli

Nata a Modena nel 1991, se fosse nata nel 1941 avrebbe fatto la libraia. Ha studiato fisica per un po’, ma forse avrebbe dovuto scegliere biologia dato che gli animali le piacciono più del grafene.