Due libri che parlano bene di suicidio
È uscito da poco un libro di quelli che raccontano una storia vera molto forte, come si dice: s’intitola Svegliami a mezzanotte e parla del tentato suicidio della sua autrice, una scrittrice di Napoli non molto conosciuta con un nome molto particolare, Fuani Marino. Avendo dovuto affrontare, in passato, i suicidi di due persone a me molto care, ho voluto leggerlo non appena è stato pubblicato. Non perché mi aspettassi di trovare risposte a domande irrisolte – «ogni suicidio è destinato a restare un enigma», come scrive la stessa Marino – ma perché di suicidio, e di malattie psichiatriche in generale, si parla e si scrive ancora piuttosto male, penso.
Dopo averlo letto mi sono chiesta se esistano terapie di gruppo per chi ha dovuto affrontare il suicidio di un parente. La risposta è che sì, esistono, anche in Italia, per quanto mi è sembrato di capire che non siano così facili da trovare. Mi sono poi chiesta come mai non avessi mai cercato gruppi di questo genere in passato e mi sono data due spiegazioni. La prima forse la si può intuire: quando non riguarda personaggi famosi o che non si conoscevano personalmente, il suicidio è un tipo di morte di cui si parla poco, anche tra le persone vicine a chi è morto. Quello da suicidio è un lutto per cui si prova imbarazzo, che sia perché ci si vergogna, perché si ha paura di ciò che gli altri potrebbero pensare della propria famiglia, o semplicemente per via delle reazioni, assolutamente normali, di coloro a cui si confida che il proprio padre, il proprio fratello o il proprio figlio si è suicidato. Può valere anche per un amico molto caro.
La seconda spiegazione c’entra con una delle strategie che ho usato, negli anni, per fare i conti con l’essere sopravvissuta al suicidio di qualcun altro, come dicono i suicidologi: leggere libri che parlano di morte e lutto. Per molto tempo nella mia vita non ci sono state altre persone che avessero subito un suicidio, e solo nei libri – in generale uno dei miei mezzi preferiti di interazione con il mondo – potevo trovare quella sensazione di essere compresa da qualcuno che ci era passato a sua volta.
La strategia di cercare nei libri delle risposte è suggerita dai libri stessi: i memoir (non è una parola che si usa in italiano, ma credo sia la più precisa per indicare il tipo di libro autobiografico a cui sto pensando) che parlano di lutto sono pieni di citazioni; di altri memoir che parlano di lutto, di saggi, romanzi e poesie. È così anche Svegliami a mezzanotte.
All’epoca del suo tentato suicidio, nell’estate del 2012, Marino aveva appena compiuto 32 anni e da quasi quattro mesi era diventata madre. Il suo libro è strutturato come una cartella clinica: c’è una parte iniziale dedicata all’anamnesi familiare, una parte sull’esordio della malattia psichiatrica (il disturbo bipolare) e sul suo sviluppo, e una sul “dopo”, la convalescenza, sia mentale che fisica, dato che Marino cercò di uccidersi lasciandosi cadere da un balcone al quarto piano, causandosi una serie di ferite gravi.
È un libro molto diretto ed essenziale, che lascia gran parte delle riflessioni agli altri autori citati. Nella sua breve recensione su Vanity Fair Daria Bignardi dice «non so se il libro di Fuani Marino sia letteratura»: senza addentrarsi tra le possibili definizioni di questa parola scomoda, penso che Svegliami a mezzanotte sia soprattutto un documento, un testo simile a un diario in cui l’autrice parla prima di tutto a sé stessa per cercare di capirsi. Solo in seconda battuta è un coming out con il mondo. In quanto tale ha una funzione sociale: sui giornali, in TV, sui social network e dal parrucchiere si parla ancora male di suicidio e malattie psichiatriche, e storie come quella di Marino ci servono per imparare a farlo meglio, capendo qualcosa in più di cosa può succedere nella testa delle persone. Il merito principale di questo libro, secondo me, e quello più utile per chi, forse, avrebbe voluto fare parte di un gruppo di auto-aiuto di persone sopravvissute al suicidio di una persona cara se avesse saputo che esistevano, è mostrare la banalità delle malattie mentali.
Marino cita alcuni famosi suicidi su cui si tende a romanzare, gli artisti le cui immagini finiscono su t-shirt e copertine di tesine di maturità, come Sylvia Plath e Virginia Woolf. Tuttavia raccontando la sua adolescenza piuttosto comune (andava male in latino, greco e matematica, leggeva Bukowski, era affascinata dai liceali più grandi che portavano la kefiah), il suo periodo universitario piuttosto comune (i coinquilini di merda, la libertà di poter organizzare lo studio da sé, l’incertezza sul da farsi dopo la laurea) e le delusioni delle sue prime esperienze lavorative a loro volta piuttosto comuni (un posto precario e poco stimolante nella redazione di un quotidiano), Marino non costruisce un’estetica attorno ai suoi disturbi, non si presenta come una persona straordinaria e incompresa, ma come una persona normale che, per una serie di circostanze che possono capitare in tante famiglie, e forse una predisposizione ereditaria, ha sviluppato una malattia psichiatrica.
Un modo di raccontare una storia di suicidio simile a questo l’ho trovato in un altro memoir pubblicato da poco, L’estate del ’78 di Roberto Alajmo, uscito l’anno scorso. L’estate del titolo è quella in cui l’autore parlò con sua madre per l’ultima volta, qualche mese prima del suo suicidio. La parte finale del libro parla appunto di questo e di come la madre di Alajmo sviluppò una dipendenza da Spasmo Oberon, un barbiturico che negli anni Settanta e fino al 1986, quando fu tolto dal mercato, creò gravi problemi di tossicodipendenza a moltissime donne italiane a cui era stato prescritto per affrontare forti mal di testa e dolori mestruali. Anche il racconto di Alajmo è un coming out, quello di una persona la cui famiglia ha dovuto affrontare i problemi legati a una malattia psichiatrica e poi a un suicidio, ma è anche altro, cioè la storia di una famiglia che non può essere definita semplicemente dal fatto che un suo membro abbia dovuto affrontare una depressione e alla fine si sia ucciso. Prima delle 80 pagine che parlano della malattia della madre, del rapporto dell’autore con questa malattia e di cosa successe alla fine di ottobre del 1978, Alajmo si prende 90 pagine per ripercorrere la storia di suo padre, dei suoi nonni, della propria infanzia e del rapporto con suo figlio. Credo che noi del club dei sopravvissuti al suicidio di una persona cara dovremmo fare come Roberto Alajmo quando pensiamo alla nostra famiglia e ricordare non solo il trauma.
La madre di Alajmo era un’insegnante che nella Sicilia degli anni Sessanta cercava di fare scuola in modo innovativo, seguendo le idee di Lorenzo Milani. Era anche una pittrice dilettante e appassionata d’arte. Fuani Marino è una grande lettrice, una persona che ha studiato a lungo e oltre a Svegliami a mezzanotte ha scritto anche un romanzo; come racconta lei stessa è considerata molto intelligente dalle persone che la conoscono. Né lei né Alajmo però hanno fatto dei ricami retorici sulla creatività, l’istrionismo e il fascino di chi soffre di un disturbo psichiatrico. Molte altre storie di suicidi invece tendono a dire che la persona suicida era speciale. Se da un certo punto di vista è comprensibile – dirsi che le persone brillanti e talentuose facciano fatica a stare al mondo perché sono troppo per il mondo è un modo per accettare il suicidio – è sbagliato perché non permette di inquadrare il disagio psichico che l’ha causato come una malattia ed è deleterio, perché rischia di indebolire le strategie di prevenzione del suicidio e perché, rendendolo romantico, favorisce una serie di paranoie dannose.
Raccontare le storie di suicidio – sui giornali, ma anche nei saggi di letteratura o nelle biografie di artisti famosi – in modo retorico non aiuta la prevenzione di suicidi e forme di autolesionismo e non fa bene a chi ha subito il suicidio di qualcun altro. Un’altra forma di retorica dannosa è quella che suggerisce che il suicidio di un genitore ci dica qualcosa sul destino dei figli. Una volta, in una biografia di Emilio Salgari, lessi una frase che diceva più o meno così: «Si suicidò come aveva fatto suo padre prima di lui e come avrebbe fatto suo figlio dopo di lui». Quando si parla di Sylvia Plath spesso si dice che anche suo figlio, che aveva un anno quando lei morì nel 1963, si suicidò a 47 anni. Di Ernest Hemingway si dice che anche suo padre si uccise e sua nipote. Non si citano mai tutti i figli, i genitori e i nipoti che invece non si suicidarono.
Proprio perché parlare di suicidio non è facile, ci sono ancora molte cose che non sappiamo sul perché le persone si suicidino e perché il suicidio sembri riguardare certe categorie di persone – sì, ci sono gli artisti, ma anche i dentisti – più di altre. Per questo è meglio evitare metafore, parallelismi e altri trucchi retorici che diano per buone credenze e luoghi comuni quando parliamo di suicidio.
Ultimamente sul Post e su altri siti di notizie italiani si è presa la buona abitudine di indicare, in fondo agli articoli che parlano di suicidio, qualche numero utile che chi si trova in difficoltà può chiamare per sentirsi ascoltato, come consigliato dalle linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Facendo un piccolo spoiler, vorrei mettere qui una citazione della lettera che Fuani Marino dedica alla figlia alla fine di Svegliami a mezzanotte, per tutti quelli che sono sopravvissuti al suicidio di qualcun altro.
Ma ecco quello che non dovrai mai pensare:
che io non ti abbia mai amata,
o di avere una qualche responsabilità,
o ancora che possa capitarti qualcosa di simile.
Perché ogni persona ha la sua storia.