Alla ricerca di nuovi “maestri” dell’architettura italiana
Appartengo a una generazione cresciuta con la convinzione di non avere Maestri diretti. Grandi amori, ispirazioni e fonti di cui nutrirsi, incontri fuggevoli e letture ripetute, sicuramente, ma sempre la fragile certezza di non essersi formati in un confronto forte con una persona o un pensiero a cui si sentiva di poter affidare la propria formazione.
In alcuni momenti questa consapevolezza gelava il sangue, soprattutto quando il confronto era con chi aveva costruito il proprio modo di pensare, parlare e agire appoggiandosi a fonti e ideologie strutturate, ma poi ci si guardava intorno, si percepiva il mondo cambiare molto rapidamente mettendo in discussione certezze e visioni, e allora il pensiero di essere più “leggeri” e aperti aiutava ad affrontare il futuro in maniera stimolante.
Facendo i primi passi dall’inizio degli anni Novanta, e accompagnando l’architettura italiana in questi ultimi venti anni, abbiamo assistito al crepuscolo di un mondo e, insieme, all’assalto di almeno due nuove generazioni che si aprivano ad altre esperienze esterne, alla cultura digitale e che, soprattutto, imputavano all’Accademia nazionale una chiusura e una cristallizzazione dei saperi e dei linguaggi che stava trasformando il nostro Paese in un “mercato” periferico.
Tra la scomparsa della maggior parte dei protagonisti del nostro secondo dopo-guerra e la crisi progressiva di alcuni dei fondamenti della nostra cultura architettonica recente, solo alcuni “maestri” hanno avuto la forza e la capacità di continuare a produrre contenuti capaci di generare un seguito e un’attenzione internazionale. Penso a Vittorio Gregotti, Antonio Monestiroli, Giorgio Grassi e Paolo Portoghesi che hanno avuto l’ossessiva costanza della coerenza di un percorso culturale e linguistico riconoscibile, malgrado una rigidità di visioni e proposte che li hanno allontanati volutamente dal dibattito corrente. Ma anche a Renzo Piano il cui studio è da almeno trent’anni un vero laboratorio di formazione di più di una generazione di progettisti tra pensiero ecologico e qualità diffusa dell’abitare. Mentre, probabilmente, chi tra i “maestri” più maturi ha saputo lavorare attivamente sulla formazione e sul pensiero è Franco Purini, Alessandro Mendini e Andrea Branzi, per la capacità di riformare parole e storie dell’architettura italiana offrendo una prospettiva problematica di crescita.
Ma oggi tutti questi nomi già appartengono alla nostra tradizione, e come tali andrebbero considerati. Mentre penso che, dopo un certo periodo in cui si faceva largo l’idea che non ci fosse più bisogno di “maestri”, sarebbe invece importante tornare a parlare della necessità d’individuare i “nuovi maestri” nella nostra cultura architettonica. Non credo si tratti di un problema unicamente italiano, anzi, penso che questa condizione accomuni la maggior parte delle culture occidentali attuali a dimostrazione di una profonda metamorfosi che stiamo vivendo. Non sto chiaramente pensando a nuovi baroni o a capibastone d’accademia, né a uno o più messia che ci illuminino la strada; non è più il tempo di personaggi di questo tipo. Sto, piuttosto, pensando a una serie di autori che abbiano il coraggio e la forza di uscire da una dimensione individualistica del proprio talento e che sappiano mettersi pubblicamente in discussione, prendendosi la responsabilità di offrire visioni, testi e iniziative a un mondo che sta cambiando e che chiede risposte nuove per desideri inediti. Perché l’appellativo di “maestro” non ce lo si può conferire, ma è direttamente attribuito dalla comunità a coloro che hanno dimostrato capacità di farla progredire, e che gli riconosce capacità utili al miglioramento della sua stessa esistenza.
Essere considerato un “maestro” oggi, vuol dire costruire rete mettendoci la faccia, accogliere diversità affini e farle maturare senza schiacciarle sotto il peso del proprio stile, recuperare il senso alto di una responsabilità civile del fare architettura, guardare alla formazione come a un’occasione fondamentale, non per creare cloni, ma per crescere altri, giovani autori indipendenti. I veri “maestri” escono dalle pagine autoreferenziali delle riviste e dei blog per mettersi in discussione nel mondo, a contatto con la realtà, provocando le scuole e le istituzioni culturali a fare altrettanto e a produrre contenuti innovativi e liberi. Essere riconosciuti come “maestri”, oggi, vuol dire rispondere con durezza a oltre vent’anni d’individualismo sociale e culturale che ha svuotato ogni idea di responsabilità civile del talento e che, invece, andrebbe messo al servizio della comunità e dovrebbe essere motore di trasformazione e di cambiamento responsabile.
L’architettura italiana si è spesso, e giustamente, lamentata della marginalità culturale e sociale del suo ruolo all’interno della nostra società, ma questo non deriva in parte anche per la chiusura narcisistica e autoreferenziale in cui si è messa da troppi anni? Credo che sia compito delle generazioni che in questi anni hanno attivamente contribuito a smantellare parte del sistema accademico asfittico e a portare anti-corpi culturali e progettuali all’interno del nostro panorama, quello di prendersi anche la responsabilità di un ruolo pubblico e culturale alternativo a quello che hanno criticato e demolito. Alcune esperienze interessanti non mancano: penso a Cino Zucchi, Michele De Lucchi, Italo Rota, Pippo Ciorra, Cherubino Gambardella, Marco Navarra ed Emanuele Fidone che stanno portando avanti attivamente un’appassionata attività didattica, pubblicistica e progettuale; a Stefano Boeri che all’attività culturale ha affiancato un diretto impegno politico; ad autori indipendenti come Attilio Stocchi, Beniamino Servino, Metrogramma, Stefano Pujatti, Alessandro Scandurra, Al.Bo.ri., Tamassociati, Ian+, Park e Ma0, ma anche ai più giovani collettivi di San Rocco, Modus, MARC, Laboratorio Permanente, Librizzi+Cassani, Tamassociati e Diverserighe studio che lavorano generosamente sul progetto come atto di riforma di contenuti e strumenti culturali e visivi.
In Italia non sono mai mancati i talenti, ma la condizione attuale e diffusa d’individualismo e frantumazione culturale ha impedito che le eccellenze potessero trasformarsi in centri riconoscibili. Ed è per questo che credo sia necessario chiedere, oggi, a coloro che dirigono le istituzioni culturali legate all’architettura, che coordinano dottorati e dipartimenti, che vengono pubblicati sulle riviste nazionali e internazionali, che coltivano un’idea di eccellenza del professionismo, di mettersi ancora di più in discussione e di prendersi la responsabilità pubblica diventando, forse, quei “maestri” che le nuove generazioni e i contesti che cambiano chiedono con visioni e azioni innovative e generose. La situazione attuale chiede esempi e buone pratiche; pretende una visione del potere non cinico e autoreferenziale ma aperto, dialogante e trasparente; domanda una partecipazione pubblica più attiva e generosa; auspica un’architettura “bene comune” che produca qualità diffusa e buone pratiche; chiede un’architettura domestica, calda, aperta e capace di dare identità contemporanea ai luoghi che è chiamata a trasformare. Ed è per questo che credo noi, oggi, abbiamo bisogno di una generazione di “giovani maestri”, perché non basta affidarsi a una massa di buoni professionisti e amministratori per andare avanti, ma abbiamo soprattutto bisogno di esempi e azioni illuminanti, ambiziose e coraggiose che abbiano nomi e cognomi e su cui contare per cambiare la situazione di stallo drammatico in cui stiamo annegando. Se questa generazione di “giovani autori” avrà il coraggio e la forza di fare questo salto di qualità e consapevolezza, credo potremo guardare alla nostra architettura e al paesaggio che ne deriverà in maniera differente. Ma, adesso, chi avrà il coraggio di fare il primo passo in avanti?