Zawia: il mondo arabo oltre gli stereotipi di piazza Tahrir
Quando circa un anno fa venne inaugurata la bella mostra Archizines curata da Elias Redstone presso lo Spazio FMG per l’architettura a Milano, si aprì ai nostri occhi uno scenario sorprendentemente vitale di ricerche, piccole riviste autoprodotte, sperimentazioni trans disciplinari capaci di dare un volto alle tantissime micro comunità di architetti, artisti, ricercatori, e studenti che ancora credono nell’importanza del confronto e degli studi indipendenti. E che, soprattutto, affermano che uno degli obbiettivi ancora più rilevanti sia quello di stampare in cartaceo senza cedere alle semplificazioni del digitale.
Anche in Italia si era avuto sentore di questa tendenza, quando, nel giro di pochi mesi, uscirono i primi numeri di San Rocco, Dromos e Inventario, tre riviste indipendenti che si aggiungevano alla già ricchissima platea di magazine dedicati all’architettura e al design.
Si trattava, in tutti questi casi, di strumenti diversi, problematici e con una linea editoriale molto chiara che cercava nel sistema allargato della comunità internazionale e della pratica “aperta” del call-for-paper, la possibilità di allargare ogni volta lo spettro delle proprie riflessioni e di dare voce ai tanti, giovani autori che raramente hanno occasione di pubblicare le proprie ricerche e lavori.
All’interno di questo nuovo filone internazionale che sta offrendoci pubblicazioni e stimoli totalmente inaspettati, credo sia importante dare il benvenuto a “Zawia”, una nuova rivista uscita in questi ultimi mesi, prodotta da una redazione mobile tra Londra, Milano e Il Cairo, stampata in Egitto e pubblicata in edizione bilingue arabo-inglese.
Fondata da Ahmed Gamal, Ahmed Shawky, Kareem Hammouda, Mazin Abdulkarim e Moataz Faissal Farid come rivista attenta alle relazioni complesse e fragili tra architettura e gli scenari sociali e politici che stanno squassando il Mediterraneo e il mondo Arabo, Zawia si pone un interrogativo forte sul ruolo sociale e civile della cultura architettonica e del progetto all’interno di questi macro-scenari.
Il suo nome “zawia”, tradotto dall’arabo, “angolo, un punto focale dove due linee si incontrano”, indica la disponibilità forte a costruire dialoghi e convergenze tra mondi differenti.
La struttura organizzativa è semplice e sembra essere in parte desunta dall’esperienza di San Rocco; tre numeri all’anno per un totale di tre anni di attività. Ogni volta un numero monotematico, in questo caso “Change” e il lancio del prossimo tema con un “call-for-paper” aperto a ogni possibile contributo. La vendita tramite il sito e pochi, selezionati punti vendita.
Mentre, a differenza di San Rocco che fa del pauperismo minimalista una dota di raffinata qualità estetica, Zawia si presenta ancora più basica ed elementare, povera nei materiali usati, più vicina al ciclostilato rilegato che a una rivista contemporanea, ferma a rappresentare le idee più che a renderle nella loro bellezza esteriore.
Scorrendo i tanti saggi e i contributi di autori provenienti in maniera trasversale dal mondo arabo, come da quello occidentale, riconosciamo a questa nuova rivista la volontà di costruire un ponte necessario tra realtà politiche e culturali così lontane e diverse tra di loro. In questi anni sono mancate voci indipendenti e innovative da tanti di quei Paesi in profonda crescita ma di cui non si sapeva quasi nulla, tranne che per qualche saggio o breve approfondimento apparsi su Domus o su The Architectural Review.
Ma, di fatto, quello che mancava ogni volta erano le voci dall’interno, capaci magari di farci leggermente cambiare il punto di vista sui fatti e sui luoghi che rappresentavano le tracce di un cambiamento.
I riferimenti culturali di partenza sono abbastanza rintracciabili in una stagione recente di ricerche metropolitane che hanno segnato una intera generazione: non a caso in questo primo numero la forte influenza culturale di Saskia Sassen è testimoniata da un suo bel saggio sul ruolo politico della città contemporanea, e il ruolo di Stefano Boeri che, soprattutto, con la “sua” Domus aveva per primo aperto spiragli e sguardi differenti su queste parti di mondo, è riconosciuto attraverso una sua intervista.
Una serie di altri saggi “culturali” di Salvatore Pillidda, Milan Zlatkov, Noheir Elgendy e Ahmad Borham allargano questa prospettiva e cercano d’indagare la dimensione politica dello spazio pubblico contemporaneo nella metropoli araba convergendo in quasi tutti i casi sul caso forse più eclatante e visibile di questa condizione che è piazza Tahrir, e quello che simbolicamente ha rappresentato nella riconoscibilità globale della Primavera Araba.
Affiancati ai numerosi saggi i materiali fotografici di Filippo Romano, Marco Giusti, Giovanna Silva e Loris Savino sono pensati come produzione autonoma e autoriale che dà ancora più forza visiva ai testi che corrono nel volume.
In un solo saggio, scritto da Mohamed Elshahed si cerca di tracciare una prima storia dell’architettura in Egitto sotto il regime di Nasser tra il 1939 e il 1965, ma la speranza è che seguano in futuro molti altri saggi e studi che ci consentano di conoscere e leggere criticamente lo sviluppo fisico e urbano di questa porzione di mondo offrendoci strumenti nuovi che aprano orizzonti di ricerca e comprensione inaspettati.
Con queste scelte culturali di campo Zawia dichiara con chiarezza l’appoggio a una visione dell’architettura come disciplina fragile, non autonoma, ma strettamente collegata ai tanti fenomeni che ne mettono in discussione lo statuto civile originario e con cui sarà costretta a dialogare per individuare gli strumenti e i linguaggi capaci di restituirgli forza e dignità pubblica.
Si tratta di una scelta culturale chiara perché si mette in totale contrasto con un approccio completamente diverso portato avanti da San Rocco, Dromos e Inventario, in cui, invece, si cerca di lavorare su di una dimensione autonoma dell’architettura come disciplina lasciando il rumore di fondo del mondo, all’esterno.
E invece, se vogliamo conoscere e individuare gli strumenti per intervenire su quelle che acutamente Pier Paolo Tamburelli ha definito le “grey cities”, quei centri metropolitani apparentemente amorfi e senza identità che si assomigliano tanto dalle coste mediterranee del sud passando per l’iperbrianza e le new town cinesi, dovremmo proprio immaginare che il “vero cambiamento debba passare unicamente dalla realtà. E solo se le élite di queste città grigie cominceranno a guardare a questi luoghi senza illusioni e senza disprezzo.”
Zawia è interessante perché appare da subito come un tentativo imperfetto, generoso e aperto per dare forma critica a una stagione nuova dell’Europa e del Medio Oriente, e credo sarebbe importante seguire con attenzione queste esperienze e cercare di dargli forza partecipata e sostanza.
In fondo questa rivista appare come un luogo domestico tradizionale arabo molto noto in Medio Oriente, il “diwaniyah” (di cui parlano Joseph Grima e Markus Miessen), una stanza arredata con sedute e tavolini su tutti i quattro lati dove la gente s’incontra, beve il tè, discute di politica, cultura e vita vissuta, trasformando questi luoghi elementari negli spazi di confronto più aperti e interessanti di un mondo che appena conosciamo.