Una occasione da non perdere: la nuova sede della Fondazione Feltrinelli a Milano
Chi ha avuto la sorte di leggere, ieri mattina, la pagina culturale del Corriere della Sera si sarà sicuramente imbattuto in un breve, ma tagliente articolo di Vittorio Gregotti intitolato “Quel colonialismo architettonico” e dedicato al progetto dello studio svizzero Herzog & de Meuron per la Fondazione Feltrinelli a Milano.
In un periodo di malcelato “buonismo” critico e di un relativismo culturale a volte imbarazzante, le parole dure e decise di Gregotti appaiono esagerate, quasi sovradimensionate rispetto a una serie di opere e d’interventi decisamente più gravi e invasivi del paesaggio milanese che sono passate sotto un diffuso e colpevole silenzio. Gregotti non è nuovo a polemiche dure e fieramente di parte nell’ambito della cultura architettonica europea degli ultimi decenni, anche se soprattutto negli ultimi anni i suoi giudizi e interventi si sono fatti ancora più netti e contrariati, come a indicare un imbarazzo diffuso nel comprendere e accettare un quadro culturale e ideologico che sta profondamente cambiando.
Ma chi sarebbero i fautori di quel “colonialismo” che vuole “imporre l’impronta di una cultura nord-germanica” a Milano, imponendo il progetto come “un atto d’imperio” a quella porzione di città? E, soprattutto, che tipo di progetto è stato immaginato per uno dei committenti culturalmente più riconosciuti e apprezzati del nostro Paese come la Feltrinelli?
Quello di Herzog & de Meuron è uno dei pochi studi d’architettura che negli ultimi vent’anni hanno avuto la capacità di portare avanti un ripensamento radicale sulla natura degli spazi pubblici e dei luoghi collettivi su scala urbana, con una serie di opere che spesso hanno segnato in maniera decisiva ed efficace il dibattito architettonico contemporaneo come per la Tate Modern e il Laban Center a Londra, gli stadi di Monaco di Baviera, Basilea e Pechino, la Caixa Forum a Madrid e il Museum der Kulturen a Basilea. Composto da una coppia di progettisti di Basilea, allievi riconosciuti del “milanese” Aldo Rossi, docenti all’ETH di Zurigo, Pritzker Prize nel 2001, sono tra gli architetti più rigorosi e coerenti all’interno di quel carrozzone mediatico definito “star system”, proprio per la capacità di leggere in maniera indipendente e acuta i contesti e i luoghi in cui intervengono, puntando a ripensare alla natura contemporanea del monumento come proprio il loro “maestro” milanese gli aveva insegnato.
Accantonato per un momento il pedigree “arrogante” dei progettisti svizzeri passiamo al progetto.
L’area prescelta per ospitare sia la Fondazione Feltrinelli sia il quartiere generale della casa editrice si trova sui terreni prospicenti i bastioni di porta Volta, una porzione urbana molto delicata, margine storico a nord-est della città e limite fragile tra la periferia storica operaia del quartiere Garibaldi, e alcuni grandi manufatti moderni come il Cimitero Monumentale. Si tratta di una porzione urbana delicata che, con l’abbattimento delle mura spagnole che si appoggiavano ai caselli daziari, era diventata una lunga striscia di terreno schiacciata dal traffico e senza alcuna identità riconoscibile.
Il progetto dello studio svizzero ricompone, in maniera forse un po’ troppo letteraria, l’impianto delle mura spagnole definendo a destra e sinistra dei caselli due imponenti corpi di fabbrica lineari che avranno il compito di risarcire quel vuoto urbano che da troppi decenni segna questa porzione della città.
L’intervento è di una grande, imponente semplicità, con i due edifici che mantengono la stessa altezza delle architetture prospicenti, e che sono definiti da una griglia strutturale regolare che li avvolge per tutta la loro interezza, giocando acutamente con la memoria della cascine lombarde, ma anche con l’immaginario delle grandi serre Ottocentesche e con il simbolo primordiale della capanna con tetto a falda.
E l’accusa di non “capire” l’architettura italiana e il contesto milanese mi sembra alquanto fragile soprattutto davanti a una immagine di città cresciuta in questi anni in maniera confusa e senza alcuna visione unitaria. E allora, di quale Milano stiamo parlando, e a quali modelli dovremmo guardare?
Le prime immagini che possiamo commentare ci propongono una coppia di edifici in cui vuoti e pieni, trasparenze e opacità giocano con grande maestria ricomponendo una frattura urbana, e mettendo in dialogo parti separate della città.
Il primo corpo di fabbrica, maggiore per dimensione, ospiterà la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, uno dei centri studi e archivistici più importanti d’Europa che finalmente si potrà aprire con tutte le sue reali potenzialità al grande pubblico e alla città, e che sarà organizzato con una libreria e caffetteria al piano terra, uno spazio multifunzionale e gli uffici ai due piani superiori, e all’ultimo livello una grande sala di lettura per gli studiosi. Nel secondo edificio sarà ospitata la sede centrale della casa editrice, ma anche in questo caso il piano terrà sarà completamente pubblico. Il progetto complessivo prevede anche la sistemazione a verde e piste ciclabili del terreno recuperato e lasciato libero dai nuovi interventi.
E allora, perché Gregotti si augura addirittura che non si costruisca con il rischio che Milano debba “sopportare” questa opera così imprudente da avere fatto sollevare l’intera comunità architettonica milanese (rumori di cui nessuno si è accorto, al momento)? Eppure il professore milanese ha sempre avuto un’ottima relazione con la Feltrinelli, casa editrice che ha pubblicato nel 1967 una delle sue opere più riconosciute come “Il territorio dell’architettura”, e per cui ha firmato nel 1974 il progetto per la Fondazione Feltrinelli proprio nel cuore del centro storico meneghino, senza che, purtroppo, venisse realizzato.
Così come appare risibile l’accusa di “colonizzazione” perpetrata da questa opera come se fosse un virus mortale per una città che invece sembra cercare, in maniera un poco confusa e senza una vera regia pubblica, i segni e i simboli di una necessaria rinascita urbana in senso qualitativo e diffuso.
La nostra architettura in questi ultimi decenni con Piano, Gae Aulenti, Aldo Rossi e lo stesso Gregotti ha avuto la forza e la capacità di produrre grandi opere e nuovi simboli in molte metropoli internazionali senza che nessuno levasse il grido dell’invasione straniera, ma anzi, considerandoli elementi di un arricchimento necessario per guardare avanti e non costruire inutili steccati.
Come possiamo avere timore di un’opera realizzata da progettisti d’indiscusso talento con cui sarà solo importante provare a confrontarsi e, magari alzare ancora di più l’asticella della qualità del progetto spingendoli a produrre una grande opera per Milano?
Come possiamo augurarci che un patrimonio della città e del Paese come la Fondazione Feltrinelli non trovi finalmente una casa grande e stabile capace di arricchire tutti noi di una preziosa risorsa che a malapena conosciamo? Dovremmo riuscire a guardare a queste opere come a occasioni per dare forma e qualità alla città che abiteremo.
Dovremmo cercare di capire ancora di più le opere che stanno cambiando il nostro paesaggio quotidiano applicando quell’esercizio di generosità critica e consapevole che ci fa committenti e cittadini migliori, desiderosi di avere solamente una città diversa, aperta e di cui essere finalmente orgogliosi.
Ed è per questi motivi che mi auguro che questa opera, così come molte altre di altissima qualità, contemporanee e progressiste, magari firmate da giovani, bravi autori italiani ed europei, arricchiscano Milano, facendola tornare quella metropoli che in tanti ci invidiavano fino a qualche decennio fa, e, in cui, fare architettura vorrà dire tornare a costruire futuro e luoghi che abiteranno, spero felicemente, i nostri figli.