Ennio Brion, ovvero come fare bene il committente d’architettura in Italia
In questi giorni difficili, emozionanti e concitati mi sono interrogato spesso sul rapporto che esiste nel nostro Paese tra committenza e architettura, perché questa relazione ha segnato, nel bene e nel male, l’immagine e il paesaggio italiano lungo tutto il 900’. Il fascismo fece dell’architettura uno strumento di potere e comunicazione sociale, per contro, o forse, come reazione, la Repubblica italiana e i suoi amministratori principali l’hanno sempre evitata come tema di riflessione e come strumento politico. Solo negli ultimi due decenni, proprio con il cambio della Legge elettorale per le amministrazioni locali, l’architettura è tornata nei programmi elettorali e gestionali dei sindaci e dei governatori regionali.
E così, guardando le folle davanti al Quirinale mi ricordavo del vanto del nostro ex-premier per Milano Fiori, per le ville sparse tra Lombardia e Sardegna e per il disegno dei loro giardini, delle facciate fatte coprire nel centro di Genova durante il G8 perché troppo brutte, e delle serie di finte statue greche sparse per Palazzo Chigi.
E così, a questa vicenda condita di ninnoli e cattivo gusto, voglio contrapporre la storia di Ennio Brion, uno dei grandi committenti privati di architettura e design italiano, sulla cui vicenda cui ho avuto il piacere di curare una piccola, ma preziosa, mostra presso FMG Spazio per l’architettura contemporanea a Milano e che si può ancora visitare.
Questi gli estratti dell’intervista realizzata due mesi fa:
“La storia dell’architettura è da sempre segnata dalla presenza di committenti importanti, personaggi capaci di scegliere bene il loro architetto, di offrirgli una visione da cui partire, di seguirlo nell’evoluzione del progetto, contrastandolo quando necessario e rispettandolo, come si fa con un compagno di viaggio.
I risultati sono sempre potenti e ci offrono opere importanti che migliorano la vita dei territori e delle città che abitiamo.
Per raccontare alcune storie di grandi committenti contemporanei abbiamo deciso di partire da Ennio Brion, anima del successo dell’azienda Brionvega dagli anni Sessanta ai primi anni Ottanta, personaggio significativo del design e dell’architettura italiana contemporanea, e figura paradigmatica per raccontare l’evoluzione del ruolo del committente nel panorama attuale.
LM: Vuoi tracciare la storia di come sei entrato, prima nel mondo del Design, poi in quello dell’Architettura? Mi sembra che per te non esistano forti distinzioni tra le due discipline.
Ennio Brion: Vi sono entrato fin da giovane perché soffrivo molto il fatto che nel mondo dell’elettronica di consumo, gli oggetti avessero due modelli di riferimento a cui ispirarsi: le radio guardavano alla produzione tedesca, i televisori a quella americana.
Nel 1957, a 17 anni, mi capitò di scoprire la rivista Stile e Industria di Alberto Rosselli, del quale poi divenni amico. Nel primo numero che acquistai erano presentate delle macchine da cucire di Marco Zanuso per la Necchi, realizzate dopo quelle di Marcello Nizzoli. Era anche pubblicata una moto, Motom, prodotta da un’azienda milanese, che era stata disegnata sempre con la consulenza di Sapper e di Zanuso. Fui subito attratto dalle forme morbide di Marco Zanuso, ero ancora uno studente molto naif, non ero molto preparato sull’argomento, però avevo il desiderio di aiutare i miei genitori con Brionvega, volevo trovare, per dirlo con un termine attuale, delle soluzioni innovative, e in quel momento l’innovazione non era ancora un concetto diffuso.
Dopo una breve parentesi con Rodolfo Bonetto, iniziò una collaborazione fondamentale e molto lunga con Marco Zanuso. I primi prodotti ebbero molto successo, il televisore Antares era caratterizzato da forme morbide, curvilinee, molto amate da Zanuso, rispetto alle forme più dure dell’International Style. In questo modo il prodotto si presentava sul mercato con una carica in più, era quasi sensuale.
Zanuso cercava questi volumi e linee inedite attraverso una ricerca giocosa e trasversale, aveva una serie di punti di riferimento non scontati. Io lo consideravo un vero e proprio illuminista, veniva dal Lago di Como, aveva un’intelligenza che lo contraddistingueva e gli ha permesso di affrontare, durante la sua carriera, tanti temi diversi, sempre innovativi: le poltrone imbottite per Arflex, le macchine da cucire Necchi, gli stabilimenti e infine il lavoro con noi.
Questo è stato il punto di partenza e l’origine della nostra collaborazione, che ho sempre seguito, fin da quando ero studente, e che in seguito ho portato avanti con altri maestri che completavano la vena di Zanuso in altri settori: c’erano i fratelli Castiglioni, Franco Albini, Mario Bellini. Ho sempre pensato che una pluralità di proposte possano muovere un sano spirito di competizione, che rende il lavoro più stimolante.
Per quanto concerne l’architettura, il modello è stata l’Olivetti. Ho imparato dall’azienda di Adriano Olivetti il concetto che tutto è comunicazione, intesa in senso allargato. La comunicazione dell’azienda diviene lo stabilimento stesso, insieme agli showroom, al design, alla pubblicità. È una comunicazione differenziata per temi, molto concentrata e indirizzata in maniera unitaria, all’insegna della qualità totale. Il modo di produrre, il prodotto, il luogo della produzione, dell’esposizione, la comunicazione sono tutti momenti strettamente connessi tra loro.
Da questa visione unitaria è scaturita l’architettura, una mia grande passione, e il primo lavoro importante l’abbiamo fatto proprio con Marco Zanuso: la nuova fabbrica della Brionvega, un edificio che in seguito ricevette anche il premio In/Arch.
In questa occasione ho imparato la necessità di abbinare l’architetto al paesaggista, allora era Pietro Porcinai, del quale avevo visto la realizzazione a Pozzuoli della sede della Olivetti, progettata dall’Ingegnere Luigi Cosenza, un esempio altissimo di integrazione con il paesaggio. Tutta l’opera, nel suo insieme, in realtà è spazio che nasce dalla collaborazione tra l’architetto e il paesaggista.
LM: M’interessa la tua relazione con l’Olivetti, evidentemente è stata il tuo modello di riferimento, è stata un’esperienza industriale che hai studiato. Hai incontrato Adriano Olivetti?
EB: Si ho conosciuto Adriano Olivetti nel 1960, poco prima che morisse improvvisamente, in seguito sono diventato amico di Roberto Olivetti, il figlio. Ero un giovane entusiasta e fu un incontro veramente speciale. Visitare Ivrea è stata un’esperienza fondamentale, credo che sia un modello che andrebbe tuttora rivisto e ripensato, di fatto le aziende leader di alcuni settori studiano ancora l’esempio dell’Olivetti.
LM: Quando ho visto le bellissime fotografie di Gianni Berengo Gardin, del vostro stabilimento Brionvega realizzato da Marco Zanuso, ho pensato a due cose: ai modelli sudamericani di Amacio Williams e, dall’altra parte, alla facciata vetrata continua delle officine Olivetti di Ivrea di Figini e Pollini, quasi una citazione. Come è stato il rapporto con Marco Zanuso sulla fabbrica Brionvega?
EB: Lui era entusiasta del luogo in cui era collocata la fabbrica, alle pendici di Asolo, in una località vicino a dove era nato mio padre, a San Vito di Altivole.
Abbiamo deciso di collocare la Brionvega lì perché era un modo per tornare alle nostre origini e portare lavoro in quell’area. Siamo negli anni ’60, in quel periodo il Veneto era ancora una regione sottosviluppata, iniziava in quegli anni lo sviluppo in determinati distretti, c’era a Montebelluna, ad esempio, lo sviluppo di alcuni calzaturifici.
Seguendo l’esempio dell’Olivetti volevamo fare il masterplan di tutta la zona industriale, in cui non c’era ancora niente, neanche le infrastrutture, vi erano solo dei terreni. Volevamo occuparci dell’area e dare un’unitarietà allo sviluppo della zona, ma l’operazione fu impossibile, io dopo un breve periodo me ne andai dalla Commissione Edilizia.
Con Zanuso e Porcinai, desideravo creare un modello virtuoso, un assetto per lo sviluppo, il mio rammarico è non essere riusciti a generare un’importante area di nuovo paesaggio industriale diffuso. Credo che con la fabbrica Zanuso abbia fatto uno dei suoi capolavori, era un progettista con molto pudore, non era un grande esibitore, in tutta la sua attività è stato un uomo che si è promosso poco.
LM: Parlando del Complesso Monumentale Brion, hai chiamato Marco Zanuso per la fabbrica e Carlo Scarpa per la tomba di famiglia, come nasce questo rapporto con Scarpa? Perché avete contattato proprio lui?
EB: Il rapporto con Carlo Scarpa nasce sempre da quella passione per il design che poi è andata verso l’architettura. Avevo letto sulla rivista Ottagono un saggio, che mi piacque molto, sul negozio Olivetti di Scarpa a Venezia, in cui si paragonava la scala del negozio a quella di Michelangelo alla Biblioteca Laurenziana.
Inoltre in quel periodo frequentavo assiduamente la Triennale di Milano, mi portavano i miei genitori, mi ricordo degli allestimenti straordinari di Albini, la Triennale è stata un luogo di grandissima formazione per me e per tutti i designer di quegli anni.
Nella Triennale del ’73, in un luglio molto caldo, mi era capitato di conoscere direttamente Carlo Scarpa, che aveva allestito la sala di Frank Lloyd Wright. Lo incontrai, che guardava la sua sala, con sua moglie Ninni, io ero l’unica altra persona presente, dopo qualche attimo Scarpa mi venne incontro per chiedermi di cosa mi occupavo e mi fece una battuta: “Si vede che tu hai il fuoco sacro!”
Successivamente il caso volle che quando abbiamo fatto lo stabilimento ad Asolo, lui abitava proprio lì perché era in rotta con l’università di Venezia e si era trasferito.
Quando nel ’68 morì mio padre, mia mamma ed io pensammo di rivolgerci a Scarpa.
La scelta fu semplice, dalla mia esperienza ho imparato che ciascuno di noi ha delle propensioni, certamente la fabbrica non era il luogo per Scarpa, per lui era adatto il piccolo, il luogo dell’appropriatezza, raccolto.
Quello che ho imparato con il progetto di Scarpa è che c’è in una certa storiografia italiana il compiacimento di ignorare il committente e il suo racconto, creando poi dei miti intorno all’architettura.
Per la tomba avevamo preso il vertice del cimitero napoleonico e per proteggerla prendemmo anche tutta una fascia perimetrale di terreno. A quell’epoca c’era una legge che imponeva una distanza di almeno 25 metri per costruire accanto alle autostrade, allo stesso modo decidemmo di prendere 25 metri di terreno lungo due lati che poi Scarpa ha recintato: questa è la storia di come è andata, ad esempio, per i recinti esterni e la loro collocazione!
LM: Cosa avevate chiesto a Carlo Scarpa? È un progetto molto complesso.
EB: Non avevamo chiesto questa complessità, pensavamo ad una tomba più semplice, lui si era fatto prendere dal progetto, quando abbiamo visto l’opera abbiamo capito che era un capolavoro. È stata un’opera realizzata rapidamente. Scarpa abitava ad Asolo e quindi riusciva a seguirla con frequenza e l’impresario era una persona molto capace di Treviso, c’erano tutte le condizioni favorevoli.
LM: Dopo gli anni ’80, chiusa l’esperienza Brionvega, sposti fortemente il tuo interesse sul mondo dell’architettura, che è la tua seconda vita.
EB: È stata una combinazione di fattori, che si sono realizzati anche all’insegna del caso e della fortuna, ho incontrato sul mio percorso un’opportunità, quella del Portello-Fiera, nella quale ho voluto cimentarmi, con le modalità e il background che avevo acquisito negli anni.
Prima ho avuto l’esperienza con James Stirling e Amici di Brera è stata entusiasmante, al servizio della città, purtroppo affossato dalla burocrazia e dalla politica.
LM: Con l’ultima mostra con cui hanno aperto Palazzo Citterio abbiamo scoperto che l’opera c’era! Tutti pensavano che dopo i disegni non si fosse fatto nulla, adesso paradossalmente ci ritroviamo con uno Stirling a Milano di cui nessuno sapeva dell’esistenza!
EB: Quella è stata la mia vittoria, mi sono commosso quando ho visto quello spazio, è il luogo di un grande maestro.
Con il Provveditorato alle Opere Pubbliche abbiamo subito quasi un processo, le strutture precedenti erano state mal calcolate ai fini della sicurezza dell’edificio, ed era entrata anche l’acqua e bisognava impermeabilizzare. La Burocrazia è stata costretta dal Provveditorato ad accettare che per metter in sicurezza l’edifico bisognava posizionare dei tiranti non provvisori ma stabili, cosa impossibile perché si entrava nella proprietà di altri.
LM: Questa tua ultima avventura da committente del Portello è cominciata con Gino Valle, che è stato l’ideatore del progetto di masterplan, dopo sono intervenuti gli altri architetti, il lavoro di fondazione è stato con Gino Valle, questa è la sua ultima grande opera, un lascito importante anche nella tua storia.
EB: Con l’esperienza del Portello a Milano, che è stata la più importante, ho fatto delle scelte molto riflettute. Con Gino Valle ci sentivamo quasi tutti i giorni, in Italia erano pochi che avrebbero potuto sostenere un’operazione di questo genere con un livello di qualità così alto.
Gli assi, gli elementi fondativi di Gino Valle sono forti, imperiosi.
LM: Gino Valle fino a che punto è riuscito a seguire il Portello? Perché è mancato nel 2003.
EB: Valle è riuscito a seguire tutto il progetto del Centro Commerciale e poi ha modificato il progetto degli edifici per uffici sulla piazza, che era già progettata inclinata. Nel frattempo gli avevo proposto come altri architetti Cino Zucchi e Guido Canali e lui aveva accettato.
Nelle diverse evoluzioni si può notare come il progetto sia migliorato, all’inizio gli edifici di Valle era disposti a pettine, l’intervento di Canali ha migliorato quella prima impostazione; anche il primo progetto del verde era molto diverso, il monte pensato da Andreas Kipar è differente da quello poi realizzato su progetto di Charles Jencks.
Quello che mi rende enormemente felice è che adesso tutto il progetto si tiene con un’enorme energia, che si sente quando si è all’interno dello spazio.
LM: Ho l’impressione che il filo comune del tuo lavoro come committente sia il fatto che hai un rispetto quasi sacro per l’architetto. Quando scegli un autore lo rispetti profondamente e questo rispetto poi ritorna nel rapporto con l’architetto che tende a dare il massimo, se osserviamo tutte le opere fatte con te ci troviamo sempre di fronte a delle architetture molto importanti, questo significa che il tuo rapporto con l’architetto genera una tensione molto positiva!
EB: Praticamente con tutti gli architetti con cui ho lavorato sapevo quello che mi dovevo aspettare, le proposte che mi facevano erano in linea con quello che cercavo.
LM: C’è alla base una tua conoscenza molto consapevole degli autori?
EB: Certo, per esempio Canali sono andato a vedere i suoi lavori diverse volte a Parma, di Zucchi ho potuto osservare i progetti a Venezia, ho letto i suoi libri sui cortili milanesi e i suoi studi su Asnago e Vender, sono tutti elementi che danno un particolare rilievo al personaggio.
Di Gino Valle sono andato nel ’63 con Marco Zanuso, a vedere gli edifici che aveva progettato a Udine e gli uffici della Zanussi a Porcia. Il mio orgoglio è di aver saputo con tutti che cosa mi sarei dovuto aspettare, non avere mai spiacevoli sorprese, solo sorprese positive.
LM: Sei un grande committente, nel tuo salotto negli ultimi 30 anni sono passati tutti i grandi architetti, sei una persona a cui piace ascoltare, creare occasioni d’incontro, conferenze; vorrei a questo punto chiederti un pensiero su come si è trasformata Milano, Milano è sempre stata il tuo centro, come l’hai vista cambiare?
Ti adoperi per costruire parti di città e proietti un desiderio di qualità, in rapporto all’architettura ma anche nel complesso, come vorresti che diventasse Milano nei prossimi anni?
EB: La mia formazione risale agli anni ’60, ero giovane ma molto curioso e attento, guardavo la rivista Stile e Industria per il design, le riviste d’architettura di Milano e le diverse Triennali erano dei punti fondamentali per me. Allora l’orgoglio di Milano era di essere una Capitale, si aveva la consapevolezza di essere il centro, successivamente, con la Contestazione e gli Anni di Piombo, il terrorismo, tutto il fermento creativo si è affievolito, la borghesia si è ritirata.
Venivo sempre in queste aree, del Portello, con Marco Zanuso, c’era l’Alfa Romeo, c’era Luraghi, De Nora, i grandi progettisti e amministratori, che hanno fatto l’Alfa Romeo, l’azienda era frequentata da Mangiarotti e Zanuso che portavano i loro disegni.
In quel periodo c’era un rapporto molto stretto tra la borghesia produttiva e quella creativa, che la rappresentava perfettamente; la politica era assente, i valori erano riconosciuti, c’era un forte spirito di ricostruzione.
Per la Milano dei prossimi anni vorrei che tornasse quello spirito propositivo perché Milano se lo merita, ha le potenzialità ma ha bisogno di avere una committenza orgogliosa e consapevole, a tutti i livelli. Il poter essere committenti è un privilegio e una responsabilità che va adempiuta con consapevolezza, generosità, con il desiderio di costruire per la città qualcosa che rimanga, ad uso degli altri, che gli stranieri vengano a vedere, come noi andiamo negli Stati Uniti a vedere le loro architetture.
Un esempio virtuoso è Carlo Scarpa a Venezia, con quattro opere, la Fondazione Querini Stampalia, l’Accademia, la Biennale e il negozio Olivetti, riesce ad attirare persone dagli Stati Uniti, dalla Germania, dalla Svezia, dal Giappone, che si commuovono a vederle.
Ci vuole una committenza consapevole che va rispettata, ricordata e riconosciuta.