Sacro minimo urbano
Tutte le volte che viaggio in Oriente rimango impressionato da quanto il sacro sia ancora capace di pervadere ogni momento e ogni angolo di vita abitata che incrocio camminando in quei luoghi.
Un albero fasciato amorevolmente, un tempietto a un angolo di strada, due persone che bruciano incensi e preghiere di carta seduti sul ciglio di un marciapiede. Non colpiscono i grandi santuari in cui fluiscono migliaia di persone quotidianamente, ma soprattutto questi frammenti di sacralità domestica, temporanea che sembra dare un sapore diverso all’identità dei luoghi.
Sarà che vengo da un continente in cui l’idea e l’immagine del sacro sono stati relegati in luoghi più definiti e istituzionali, ma in cui soprattutto l’esperienza semplice, elementare del sacro sembra difficile da condividere se non in ambiti sociali e comunitari fortemente riconoscibili. Ma anche questa immagine sta cambiando sotto le spinte silenziose ma costanti dell’immigrazione e del fluire nelle nostre metropoli di decine di credi, religioni, culture che s’innestano nella porosità carsica dei nostri territori. Ricordo una foto di diversi anni fa di Francesco Jodice che rappresentava un tempio della comunità cinese al quarto piano sotterraneo di un parcheggio nella periferia di Parigi; l’immagine era straniante e molto potente, perché dava la chiara idea della colonizzazione virale di culture altre degli spazi che spesso abbandoniamo e che venivano trasformati in nuovi luoghi con una identità inaspettata.
La relazione tra luoghi informali, profani abitati dal sacro e paesaggi metropolitani è diventata da alcuni anni un interessante lavoro di ricerca di Matilde Cassani, classe 1980, architetto e studiosa che attraverso una lunga serie di indagini sul campo a Barcellona e Germania, prima, e ora a New York, ha trasformato questo tema di ricerca nella progettazione di nuovi dispositivi che rendano sempre più visibile questa condizione.
Il lungo, sistematico lavoro di analisi, lettura e narrazione dei luoghi informali del sacro nelle nostre metropoli ci racconta di una dimensione diversa, nomade, precaria in cui ogni luogo, anche il più trascurato, può diventare per un attimo la finestra per dialogare con il proprio dio, magari condividendolo con la propria, piccola comunità.
In parallelo al lavoro di documentazione Matilde Cassani ha disegnato e prodotto una serie di elementari ma, molto sofisticati, spazi portatili e leggeri per la pratica religiosa, condensando in poco più di due metri quadri i segni, gli oggetti, le trame per garantire lo spazio della preghiera individuale ovunque il suo proprietario sia.
I primi risultati delle ricerche e i quattro spazi per la preghiera (Cristiano, Buddista, Musulmano e Sikh) sono esposti, in questi giorni, nella mostra Sacred space in profane buildings presso la mitica Galleria Storefront di New York, uno spazio minimo (quasi quanto gli oggetti esposti) completamente aperto alla strada con cui dialoga direttamente, e da cui sono passate negli ultimi vent’anni alcune delle esperienze più avanzate della ricerca e dell’avanguardia internazionale d’architettura. E così le pareti mobili verso strada sono state dipinte d’oro, a segnalare l’inaspettata sacralità del luogo, e all’interno della galleria sono ospitate le quattro postazioni da preghiera, materiali fotografici delle diverse realtà urbane studiate e il lancio di una iniziativa che tenda a documentare e allargare la conoscenza di questo genere di luoghi nella città di New York.
Matilde Cassani fa dello studio di quello che lei definisce holy urbanism una chiave di lettura interessante per rileggere la metamorfosi che i nostri territori metropolitani stanno silenziosamente subendo anche per mano di comunità che abitano le nostre terre portando ricchezze di storie, culture e credi a cui non possono, né vogliono rinunciare.
Un lavoro di questo tipo fa molto riflettere sul ritardo culturale dimostrato dalle stanche discussioni sulla costruzione o meno di moschee nelle nostre città, perché la realtà è molto più complessa e creativa di quanto noi crediamo o sappiamo. Impariamo ad ascoltare il cuore profondo dei nostri territori e solo così, forse, impareremo a ripensarli con generosità verso il futuro e gli altri.