La vita al Festival di Mantova
Da sette anni frequento il Festival della Letteratura di Mantova, e da sette anni penso che quello che vivo e vedo in quella città sia una delle possibili cartoline dell’Italia “che vorrei abitare”. Una città che si apre al mondo e alle sue voci libere ospitandole, con garbo, nei suoi spazi pubblici e privati offrendoti una piacevole esperienza urbana e, insieme, il confronto domestico con tanti bravi autori.
Rimango ogni volta impressionato dalle file tranquille in attesa dell’evento, dall’ascolto appassionato e critico del pubblico durante ogni evento, dalle domande e dalle provocazioni spesso inaspettate che non mancano mai, dalle librerie sempre piene di gente diversa e di tanti bambini, seduti ovunque, che leggono avidamente il libretto appena acquistato.
Questo evento è l’origine di un virus festivaliero che ha ammalato tutta l’Italia comunale indicando un modo diverso, gentile e ospitale di vivere attivamente le nostre città, soprattutto quelle medio-piccole, che riescono a offrirsi alle novità con maggiore generosità ed entusiasmo (le metropoli hanno la forza numerica di inghiottire e digerire con indifferenza quasi ogni cosa).
E così la guida degli eventi diventa involontariamente un percorso inedito per vivere e attraversare una città in un tempo ristretto passando da piccoli, protetti spazi domestici ai grandi monumenti, dal centro alla periferia apparentemente più anonima, senza quasi sentire quelle gerarchie e quelle barriere invisibili che abitualmente non ci fanno conoscere veramente una città sconosciuta.
Ogni angolo di Mantova diventa occasione per una discussione, un piccolo evento, una performance fatta con pochi mezzi e con la complicità del luogo che la ospita, indicando una delle caratteristiche più importanti e meno riconosciute all’architettura: la capacità di accogliere chiunque e di offrire uno spazio calmo e protetto, anche solo per pochi attimi. Che si tratti dell’ombra di un portico, di una panchina su cui svenire un attimo, di una vecchia salumeria che ti invita a entrare con la vetrina carica di sapori antichi, della frescura di una grande chiesa o del giardino di un palazzo aperto per l’occasione, tutto rende la città più aperta e disponibile a essere vissuta in maniera diversa, laica, più tranquilla.
Vivi costantemente l’impressione di non consumare distrattamente luoghi, persone e cose, ma di respirarli con una lentezza inusitata e divertita, prima che la città-del-giorno-dopo riprenda il sopravvento. E così quello che senti e porti dentro di te è merce rara, perfetta dispensa per un lungo inverno di corse, viaggi, incontri frettolosi e luoghi attraversati rapidamente.
Ed è forse anche per questo che il Festival, ogni anno, riesce a farmi sentire così bene, e, con me, migliaia di altri visitatori appassionati che tornano a Mantova (ma credo che la stessa cosa si potrebbe sicuramente dire di altre occasioni prodotte e vissute con amore e intelligenza da nord a sud Italia lungo tutto l’anno).
E poi i numeri impressionano e danno, ogni volta, un significato preciso all’idea di cultura come risorsa economica, sociale, simbolica: 80.000 presenze in cinque giorni (Mantova ha 40.000 abitanti), 700 volontari, un budget di meno di 2.000.000 euro coperto nell’85% da biglietti (molto economici), ma soprattutto da sponsor privati, e un indotto territoriale calcolato in almeno otto volte la cifra investita.
E in risposta a questo successo, che cresce leggermente ogni anno, il Comune ha deciso di dimezzare i magri fondi investiti fino all’anno precedente. “È stata colpa di Bondi”, pare abbia sussurrato qualcuno dalle parti del sindaco, a confermare, se ce ne fosse ancora bisogno, il drammatico scollamento che stiamo sempre più riscontrando tra la politica (piccola o grande che sia) e le immagini di un’Italia che ci piacerebbe vivere più spesso ma che non si vuole riconoscere come possibile.