Giochi senza frontiere
È ormai una tradizione: alla fine di ogni grande evento sportivo, tipo le Olimpiadi, alcuni europeisti calcolano quante medaglie hanno vinto nel loro complesso i paesi dell’Unione europea. In questo medagliere rivisto, l’UE esce tipicamente al primo posto – e anche di gran lunga, come nel caso delle Olimpiadi di Tokyo, dove i suoi membri hanno vinto 288 medaglie a fronte delle 113 degli Stati Uniti.
Giocare a girare e rigirare il medagliere per farne uscire il messaggio che si desidera è divertente. Ma se gli europeisti e le stesse istituzioni dell’UE hanno sicuramente delle buone intenzioni quando si mettono a giocare con l’orgoglio patriottico (abbiamo più medaglie di Stati Uniti e Cina messi assieme!), così facendo finiscono per mandare un messaggio ambiguo sull’obiettivo ultimo verso cui tendono.
L’Unione europea è davvero lì per giocare allo stesso gioco delle potenze di ieri e di oggi? Competizione e desiderio di affermare il proprio primato nel mondo? A parole l’UE ha sempre rifiutato queste dinamiche, spendendosi contro gli atteggiamenti nazionalisti e a favore della cooperazione e del multilateralismo – ma allo stesso tempo tra gli europeisti e i membri delle istituzioni dell’UE c’è chi vorrebbe renderla una sorta di stato con tutti i crismi, pronto a confrontarsi sullo stesso piano con le altre potenze.
Raccontare l’integrazione europea come un progetto di costruzione di un superstato è un’ottima ricetta per la frustrazione eterna. Nutre aspettative che l’UE e i suoi membri faranno sempre una gran fatica a soddisfare, per tanti motivi. Fa risaltare tutto quello che all’UE ancora manca, invece di mettere in luce tutto quello che ha già conseguito. E inchioda l’UE al terreno della competizione muscolare con Stati Uniti e Cina, quando invece potrebbe scegliersi terreni di gioco ben più favorevoli.
Oltre a essere fonte certa di delusioni e frustrazione, quello di costruire un superstato europeo è un progetto vecchio e poco interessante – un progetto che peraltro prevede come naturale corollario rendere l’UE una fortezza dai confini netti, ben presidiati e possibilmente impenetrabili.
L’Unione europea dovrebbe invece servire a scartare di lato rispetto al modello tradizionale dello stato moderno e della competizione tra potenze. Spesso si contrappone alla visione federalista di un superstato europeo la visione dell’Europa come un semplice mercato unico, senza nessuna particolare ambizione politica. Sarebbe invece utile pensare all’integrazione europea come alla costruzione di uno spazio comune: non una fortezza o un supermercato, ma una piazza.
Costruire uno spazio comune vuol dire spingere i paesi e i popoli ad avvicinarsi, aprirsi e mescolarsi, senza per forza fondersi. Vuol dire sfumare i confini – compresi quelli esterni – e permettere alle idee e alle persone di circolare più facilmente, all’interno di uno spazio sfaccettato e plurale che permetta alle diverse identità di fiorire. E vuol dire adottare un atteggiamento di curiosità nei confronti di tutto quello che si trova all’esterno, rendendo l’UE il motore di un processo di integrazione e sviluppo su scala più ampia.
In un mondo complicato e interconnesso, essere aperti, intessuti e sfaccettati è un punto di forza. L’UE appare spesso lenta e confusa, ma in realtà le sue politiche derivano da processi di consultazione e presa in carico di interessi disparati che hanno pochi simili in giro per il mondo. Ci sono casi in cui il totale è superiore alla somma delle parti, ma anche casi in cui è vero il contrario, e in cui uno spazio plurale funziona meglio di un soggetto monolitico – come peraltro è accaduto proprio a Tokyo, dove un’unica delegazione dell’UE non sarebbe mai riuscita a conquistare altrettante medaglie.
Si può anche preferire a questa visione dell’Europa come spazio comune una visione dell’Europa come superstato. Pure in questo caso però non c’è particolare bisogno di alimentare il senso di superiorità degli europei celebrandone i primati sportivi. Se c’è una cosa che – da secoli – non manca agli europei è proprio il sentimento di essere migliori rispetto al resto del mondo. Sarebbe probabilmente più utile prendere più consapevolezza delle condizioni che rendono possibili i nostri successi (se a Tokyo i paesi dell’UE hanno vinto più medaglie di tutti i paesi in via di sviluppo messi assieme, forse non è solo perché abbiamo più talento sportivo).
Per nutrire invece il sentimento di far parte di uno spazio comune, giocare col medagliere olimpico non serve più di tanto. È più utile condividere esperienze e offrire a tutti la possibilità di goderne, e in questo anche gli eventi sportivi possono sicuramente aiutare. C’è chi sostiene che la Champions League abbia contribuito di più a rafforzare il senso di appartenenza europea rispetto al programma Erasmus o a tante altre iniziative dell’UE; non è un’ipotesi così assurda.