Purché se ne parli
Così come in Gran Bretagna si sono concessi una riflessione collettiva su Winston Churchill, anche noi avremmo potuto permettercela su un protagonista della nostra storia nazionale come Giovanni Giolitti, che nel 1911 decise di aggredire la Libia. E invece abbiamo ripiegato sulla biografia di un giornalista.
È curioso che, tra i tanti obiettivi simbolici che il movimento di emancipazione e solidarietà con le persone di origine africana poteva darsi in Italia, l’attenzione sia caduta sulla statua di Indro Montanelli a Milano. È una scelta che dice molto sul movimento stesso, sui suoi limiti, e sulla pervasività della rimozione dell’esperienza coloniale italiana.
Discutere della statua di Montanelli è giusto, e va da sé che erigere un monumento a uno stupratore conclamato sia stato inopportuno. Ma proprio perché le accuse contro quella statua riguardano un matrimonio forzato e la violenza su una minorenne, contribuiscono a spostare il cuore della questione dai crimini commessi dallo stato italiano in Africa a una vicenda che ebbe sì luogo in quel quadro, ma che per quanto grave rimane una vicenda privata. E così ci ritroviamo a parlare per giorni della vita sessuale del sottotenente Montanelli nel 1935-36, invece che della politica di aggressione e occupazione portata avanti in Africa dal governo italiano per oltre mezzo secolo, e di tutto quello che s’è lasciata dietro.
Il principale motivo per cui abbiamo finito per soffermarci su Montanelli dimenticandoci del resto è – sospetto – che Montanelli è quasi un nostro contemporaneo e lo conosciamo tutti, per una ragione o per l’altra, mentre della storia coloniale italiana non sappiamo quasi niente. Difficile indignarsi, protestare, attivarsi per qualcosa che non si conosce affatto.
È significativo il fatto che la statua di Indro Montanelli a Milano fosse stata presa di mira già l’anno scorso, in un contesto diverso e slegato dalla questione razziale. Ripetere il gesto e giocare su una convergenza tra le lotte femministe e quelle antirazziste – oltre ad attivare le consuete tifoserie abituate ad attaccare o difendere Montanelli a prescindere – ha permesso di trovare uno sbocco di visibilità per un movimento come quello antirazzista (e anticoloniale) che in Italia è in realtà debole e frammentato. Al punto che non è riuscito finora a inventarsi qualcosa di altrettanto efficace dal punto di vista simbolico, così da spostare il dibattito da una questione grave ma privata all’enorme questione del rapporto politico passato e presente tra l’Italia e l’Africa.
Continuiamo pure a parlare di Montanelli – ma sarebbe ora di iniziare a parlare anche di Giovanni Giolitti, di Francesco Crispi, di Giuseppe Volpi. Non semplici sottotenenti, ma capi di governo, ministri degli esteri e governatori che guidarono le aggressioni italiane nel Corno d’Africa e in Libia, a cui continuano a essere intitolate centinaia di strade e scuole in tutto il paese. E sarebbe ora di discutere del perché il piazzale dei Cinquecento di fronte alla stazione Termini di Roma si chiami così, o del perché la metropolitana della capitale preveda una stazione intitolata alla Libia e un’altra all’Amba Aradam.
Se non siamo in grado di discuterne è perché abbiamo una conoscenza troppo limitata della storia coloniale italiana, ma anche perché manca qualcuno in grado di porre questo tema all’attenzione dell’opinione pubblica. Una delle grandi occasioni perse nell’ultimo decennio di impegno diffuso a favore delle persone migranti e contro l’odio xenofobo è stato il non essere riusciti a sfruttare le tragedie odierne in Corno d’Africa e in Libia per aprire finalmente un dibattito ampio e consapevole sul passato coloniale italiano. Siamo rimasti appiattiti sulle emergenze contingenti, sulla rincorsa alle dichiarazioni di Matteo Salvini, sulla gestione degli sbarchi – come se quella fosse una storia che inizia sulle spiagge libiche, o che inizia oggi.
D’altra parte, non si può dire che esista ancora un vero e proprio movimento delle persone africane e afrodiscendenti in Italia, al di là degli sforzi eccellenti di Aboubakar Soumahoro, Igiaba Sciego e tante altre. Troppe forse ancora le urgenze umanitarie per potersi permettere di allargare lo sguardo al passato, troppe ancora le differenze di provenienza e tra generazioni.
E a fronte di una pressione dal basso che rimane insufficiente, non si può certo riporre molta fiducia in iniziative che provengano dall’alto. Lo stato italiano ha ammesso l’uso di armi chimiche nella guerra d’Etiopia solo nel 1996 e ha restituito la stele di Axum solo nel 2005. All’interno delle istituzioni, la diversità continua a essere molto limitata – l’unica ministra di origine africana che abbiamo mai avuto è rimasta in carica per dieci mesi. Del resto, pure il Parlamento europeo si è espresso per la prima volta con nettezza sul passato coloniale europeo solamente nel marzo 2019.
Per quanto doveroso, temo che discutere della statua di Indro Montanelli non si riveli di grande aiuto nell’affrontare le nostre rimozioni coloniali e le loro implicazioni. Tuttavia, in queste settimane le spinte per una riflessione sul passato coloniale hanno preso declinazioni molto diverse nei vari paesi europei – e chissà, può pure darsi che in Italia finiremo per avvicinarci alle nostre vicende coloniali passando attraverso le storie private e le memorie familiari. Va bene anche questa strada, purché iniziamo finalmente a parlarne.