Quanti nomi di città cinesi conoscete?
Se andavi in vacanza in Cina (prima del virus), la domanda che più ti sentivi porre al ritorno era “perché in Cina?” – come se fosse strano decidere di passare un paio di settimane a zonzo nel più grande paese del mondo. Nessuno farebbe la stessa domanda al ritorno da un viaggio, che so, a Cuba, in Egitto, o in Vietnam. Però invece la Cina fa strano. E fa strano perché nell’immaginario comune è un posto misterioso e affollato, pieno di città molto brutte e molto inquinate, probabilmente sporco.
E un po’ te lo immagini così pure tu, che ci vai la prima volta, curioso ma in fondo anche un po’ diffidente. E in aereo pensi se non sarà stato un errore non essersi portati dietro la mascherina, che chissà quanta fatica si farà poi a respirare nelle metropoli.
Sul volo di ritorno, quello che invece ti chiedi è “perché diavolo non c’ero venuto prima? E perché tutti si ostinano a fare le vacanze in Giappone o nel sud-est asiatico, invece di venire qua?”.
La vera domanda infatti è perché uno non ci dovrebbe andare, in Cina (certo, quando sarà possibile tornarci). Dove lo trovi un altro paese così vasto, vario, antico, dinamico? Un altro stato che ospita le spiagge tropicali ma anche le cime dell’Himalaya, e poi le steppe siberiane e le dune di sabbia con le oasi? Un altro impero dalla storia millenaria e dalle decine di minoranze ancora ben visibili, nonostante tutto? Un altro mondo che sta cambiando in modo radicale, e che sta cambiando anche noi?
È un posto talmente ricco dal punto di vista paesaggistico, storico, culturale, sociale, politico che dovrebbe esserci la fila per andarci, in Cina. Non solo si vede il cielo azzurro e non ti offrono topi vivi – ma anzi ci sono città assai gradevoli, paesaggi magnifici, ottimi piatti, e l’esperienza di viaggio è molto serena. E invece gli occidentali sono ancora talmente rari che non solo nei villaggi di montagna, ma pure in piazza Tienanmen le persone fanno la fila per fare la foto con te.
C’è voluto COVID-19 per farci conoscere l’esistenza di Wuhan, una delle città più grandi del mondo. E almeno questa, conteggiamola tra le conseguenze positive del virus. Se andate a vedere l’elenco delle maggiori città del mondo, è probabile che le abbiate sentite nominare quasi tutte, tranne quelle cinesi. A vent’anni di distanza dall’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio – il momento simbolico in cui entrò nell’economia globale – anche un italiano ben istruito o ben informato farebbe probabilmente ancora fatica a collocare su una carta posti come Shenzhen, Guangzhou o il Sichuan.
Fa davvero impressione quanto poco conosciamo di quel mondo sterminato e determinante per le nostre società. Da turisti, soprattutto davanti ai monumenti si ha spesso l’impressione di essere privi delle chiavi per capirci qualcosa. Ma non è solo un problema di cultura personale, o di mete per le vacanze che ci perdiamo. Diventa anche un enorme problema politico ed economico, se ci mancano le coordinate di base per capire una delle superpotenze di questo secolo, in un mondo che non è mai stato tanto interconnesso.
L’abisso è talmente vasto che non si sa neanche bene da dove cominciare, e la ricchezza e complessità della Cina non aiutano. Non è naturalmente solo un problema di conoscenze geografiche o storiche: ci sfuggono in buona parte anche la cultura popolare, la vita sociale e l’arte (quanti scrittori cinesi vengono pubblicati in Italia? Quanti film vengono proiettati?). Ed è un problema così ampio che non basta fare una buona informazione. I giornalisti fanno il loro lavoro, e tendono a soffermarsi sulle sfide, le crisi, le violenze – che sono un pezzo importante della Cina contemporanea, ma che non bastano per farsi un’idea.
Servirebbe un’opera di alfabetizzazione ben più ampia, servirebbero scuole e università che prestassero attenzione alla Cina, servirebbero mediatori in grado di introdurci a questo paese, servirebbero occasioni per parlarne; è un lavoro colossale, ma da qualche parte bisognerà pur partire. Certo, alcuni esempi positivi esistono, ma sono ancora troppo pochi. L’esperienza di questi ultimi mesi mostra che l’alternativa – rimanere soli coi nostri pregiudizi e le nostre enormi lacune – non è più sostenibile. Rischiamo di uscire dalla pandemia avendo sì imparato che esiste un posto chiamato Wuhan, ma magari convinti che in Cina si mangino i pipistrelli vivi: approfittiamone per fare in modo di uscirne un po’ meglio.