Una piccola storia di provincia
Lavorando su altro, giovedì scorso mi sono imbattuto nei dati sul rischio di povertà ed esclusione sociale nelle diverse regioni d’Europa, tra cui a sorpresa primeggia il posto in cui vivo, il Trentino. Oltre che dalla redazione del Post, la segnalazione è stata raccolta dai giornali locali, presumibilmente stanchi di doversi occupare di gattini abbandonati e incidenti sugli sci. Ne è seguito un dibattito istruttivo, anche se per certi versi scoraggiante.
Il dato dell’Eurostat, prodotto in realtà dall’Istat per la parte italiana, dice una cosa chiara. Nel 2007 la percentuale di popolazione trentina a rischio povertà era il 7,5% e nel 2016 era il 23,5%: nessuna altra regione europea ha conosciuto un peggioramento di entità simile in questi ultimi anni. Certo, l’Istat conferma che il campione è piccolo e il margine di errore significativo, ma anche prendendo le stime più prudenziali (16.9% per il 2016) il risultato di fondo non cambia, non importa in che modo si provi a girare o rigirare i dati (o ad aggirarli). Negli ultimi mesi ho fatto qualche passo nel mondo del giornalismo dei dati: ed è sempre complicato discutere a partire dai dati, soprattutto quando si toccano temi politicamente sensibili. Parte subito la giostra delle interpretazioni, delle relativizzazioni, delle strumentalizzazioni – e forse è pure inevitabile che succeda ora, con una campagna elettorale in corso. Però nel caso del rischio povertà poteva andare un po’ diversamente: qui non c’è una molteplicità di numeri, correlazioni e comparazioni che ognuno può aggiustare come più gli fa comodo, ma solo un dato ufficiale, che descrive un fenomeno limpido (anche se aperto a molteplici spiegazioni).
L’episodio del dato sull’impoverimento conferma anche che è complicato discutere sul Trentino. All’interno della provincia, la narrazione per cui siamo i più bravi d’Italia – non importa in quale campo o secondo quale parametro – è durissima da scalfire. Figuriamoci dire che siamo i peggiori in Europa: la gente rimane incredula, o fa finta di non sentire. È un atteggiamento che combina e mescola un marcato provincialismo con un diffuso sentimento di distanza dal resto d’Italia, a cui si aggiunge un sincero orgoglio per tutto quello che è stato effettivamente costruito e raggiunto in pochi decenni in una regione che storicamente non è mai stata molto ricca. Ma soprattutto c’entra l’assenza di narrazioni alternative: l’egemonia politica, sociale e culturale del centrosinistra autonomista è totale, e mancano gli spazi per suggerire che forse non viviamo nel migliore dei mondi possibili.
D’altra parte, anche da fuori è difficile parlare in modo equilibrato di Trentino. Già c’è una discreta confusione fra Trento e Trieste e fra Trentino e Alto Adige, poi intervengono le invidie e i pregiudizi legati alla condizione di autonomia. Il dato sull’aumento drammatico del rischio povertà mal si combina con la narrazione interna dominante, ma si scontra anche col pregiudizio esterno secondo cui navighiamo nel privilegio e nell’oro – l’idea che qui ci siano talmente tanti soldi pubblici che la Provincia ti paga per mettere i gerani sul balcone. Anche da questo punto di vista, rimane complicato parlare di Trentino senza buttarla subito su una difesa o un attacco aprioristico all’autonomia. Cosa resta quindi di questa faccenda legata all’aumento del rischio di povertà? Restano i dati di fatto, che parlano di un aumento poderoso delle diseguaglianze sociali in Trentino e di una convergenza col resto d’Italia, dove il livello di disagio sociale era già alto. Restano alcune scelte politiche tardive o sbagliate – come far costruire a Renzo Piano un intero quartiere di lusso, rimasto invenduto – peraltro compiute in assenza di qualsiasi opposizione sostanziale a livello politico e sociale.
A me, resta il dubbio che sia poco proficuo lanciare dati nel dibattito in assenza di analisi approfondite che siano in grado di spiegarne davvero le origini. Ma se i dati sono interessanti forse è comunque meglio non tacerli – nella speranza che possano aiutare anche solo un pelo a scalfire qualche certezza o qualche pregiudizio, e a far sorgere qualche domanda complessa.