Il più grave attentato di cui non avete sentito parlare
Non sono uno di quelli che sostengono che i morti siano tutti uguali, e che dobbiamo impressionarci allo stesso modo per le vittime del terrorismo in una città occidentale o in un paese dell’Asia o dell’Africa. È umano rimanere più colpiti da un attacco che avviene in un luogo familiare, che sia la metropolitana di Londra o Bruxelles, le Ramblas oppure i locali del XI arrondissement. È più facile immedesimarsi, ed è più probabile avere conoscenti in quei luoghi.
Se sul piano emotivo è naturale prestare più attenzione agli attentati compiuti in Europa e negli Stati Uniti, sul piano razionale sarebbe utile dedicare un pochino più di attenzione a quello che accade altrove. La notizia dell’attacco di ieri a New York oggi apre le prime pagine di quasi ogni quotidiano, con titoli a tutta larghezza. La notizia dell’attacco del 14 ottobre a Mogadiscio non è comparsa su praticamente nessuna prima pagina dei quotidiani italiani – pure il Post ci ha dedicato solo un misero trafiletto.
Non è una questione matematica: non è che i 358 morti della Somalia debbano contare di più (o anche solo uguale) agli 8 morti di New York. I numeri sono un pezzo della storia, ma sono decisivi il contesto e il significato di quella storia, e l’uso che ne verrà fatto: che un terrorista possa colpire a Manhattan forse non è sorprendente, ma è un fatto rilevante e che avrà delle conseguenze politiche, e quindi è giusto occuparsene e preoccuparsene.
È invece illusorio pensare che i 358 morti di Mogadiscio non ci riguardino – ed è anche un po’ colonialista pensare che lì non ci sia una notizia, che tutto sommato sia normale che gli africani si uccidano tra di loro, e chi se ne importa. Se un attacco colpisce il cuore di una delle città più grosse dell’intera Africa sub-sahariana, forse la cosa ci dovrebbe interessare. E se c’è un’organizzazione in grado di compiere uno dei più gravi attentati terroristici della storia, forse la cosa ci dovrebbe interessare (uno dei più gravi attentati terroristici della storia, esatto).
È da quando è iniziata la cosiddetta crisi migratoria in Europa che non mi capacito dell’assoluta indifferenza e approssimazione con cui guardiamo alle cose africane. Non si tratta di sapere dove si trovino i diversi stati africani, ma di avere una minima idea della situazione in quei posti, delle ragioni che spingono migliaia di persone a spostarsi dal loro paese, dei problemi e delle ricchezze di quelle regioni. Gli africani iniziano a interessarci solo quando stanno per imbarcarsi verso le coste italiane – tutto quello che succede prima rimane un grande buco nero, che inghiotte storie e realtà molto diverse tra loro.
Che i morti di Mogadiscio ci scuotano meno di quelli di New York, ci può pure stare. Ma che non ci interessino, si fa più fatica a capirlo. Se per secoli si è potuto pensare all’Africa sub-sahariana come a un attore passivo nei rapporti internazionali, con pochissima capacità di incidere sulle nostre società, sarebbe il caso di rendersi conto che non è più così: il peso del terrorismo islamista in Africa e l’instabilità del Corno d’Africa ci riguardano e ci riguarderanno.
A occhio, se i giornali italiani dedicano così poca attenzione alle cose africane non è solo per una certa diffidenza verso gli affari esteri, e inerzia nel modo di occuparsene (la guerra fredda è finita da trent’anni, ma i corrispondenti stanno ancora tutti a New York e Mosca, con poche eccezioni). Ci si mettono le ristrettezze economiche, che probabilmente scoraggiano le missioni sul campo – e magari anche una saggia cautela, che suggerisce di parlare poco di ciò che si conosce poco. Però piano piano sarebbe il caso di attrezzarsi: di buoni lavori giornalistici sull’Africa già ne circolano, ma di praterie ancora inesplorate ce ne sono in abbondanza.