Il giornalismo europeo, un mese dopo
L’avevano annunciata come una rivoluzione nel panorama giornalistico europeo, «uno degli esperimenti giornalistici più interessanti da molti anni a questa parte». Un mese fa, l’edizione europea di Politico è andata online. Il tentativo di raccontare l’attualità da una prospettiva europea, e non più solamente nazionale, non è nuovo. Altri negli anni scorsi ci hanno provato, alcuni fallendo, altri riuscendo a sopravvivere, ma mai a sfondare. Politico lo fa forse con maggiore convinzione, di sicuro con un ottimo tempismo e dei grossi investimenti, per cui potrebbe davvero riuscire a cambiarlo un po’, il giornalismo europeo.
Molti degli avvenimenti che succedono in Europa sono ormai poco comprensibili se li si inquadra da una prospettiva strettamente nazionale, perché in realtà nazionali non sono. Il senso del lanciare un giornale come Politico sta nel riconoscere questo problema di prospettiva, e cercare di superarlo. Non sapendo bene come inquadrarli, i giornali nazionali tendono a collocare gli avvenimenti europei nella sezione degli esteri, oppure a volte tra l’economia e gli interni. Spesso collocano in posti diversi i diversi aspetti di uno stesso avvenimento (come la crisi della Grecia, o le questioni dell’immigrazione), che finisce così per essere raccontato in modo spezzettato.
Politico fa un’operazione banale ma decisiva: introduce la categoria degli affari europei. È il riconoscimento di un dato di fatto: esiste ormai una sfera di azione politica ed economica superiore a quella nazionale e inferiore a quella globale. Non ha senso trattare la crisi greca come una qualunque notizia di esteri, assieme al terremoto in Nepal e al golpe in Burundi. Né ha senso parlare di immigrazione come se fosse una notizia di interni, come una questione di ordine pubblico. Sono avvenimenti di portata europea, che vanno per forza trattati da quella prospettiva se li si vuole capire e spiegare.
Dividere le notizie tra affari interni ed esteri è una roba ottocentesca, che funziona male. (Incidentalmente, anche a livello di politiche e ministeri c’è un serio problema di categorizzazione). L’introduzione della categoria intermedia degli affari europei è inevitabile, perché le notizie che vi ricadono sono sempre più numerose e sempre più importanti, non possono più essere considerate delle eccezioni. Tutte le principali storie degli ultimi anni – la crisi economica, i problemi dell’euro, le difficoltà dei grandi partiti, l’immigrazione, la crisi nell’Europa orientale – hanno una portata europea.
La dimensione europea di queste grandi storie è legata a un grosso cambiamento in corso, che però viene ampiamente sottovalutato. Non abbiamo mai parlato così tanto di problemi europei, e la percezione di appartenere, nel bene e nel male, a un unico spazio europeo non è mai stata così forte e diffusa come oggi. In questi ultimi anni l’Europa è diventata un vero campo politico ed economico, è diventata una cosa che – in una forma o nell’altra – sta tutti i giorni sulle prime pagine dei giornali. L’Europa è diventata l’orizzonte entro cui si formano (e si risolvono) i principali problemi che fronteggiamo ogni giorno.
A Politico hanno riconosciuto l’emergere di questo campo europeo, e hanno deciso di raccontarlo. Hanno riconosciuto anche un altro elemento, che è cruciale: l’Europa non è solo quello che succede nel quartiere delle istituzioni di Bruxelles. L’Europa è (e si fa) anche nei villaggi francesi, nelle strade di Varsavia, nei caffè di Salonicco, nei sobborghi di Londra. Occuparsi di questioni europee non vuol dire occuparsi delle attività delle istituzioni dell’Unione europea. Certo, è importante raccontarle meglio di quanto sia stato fatto finora – ma bisogna anche guardare a tutto quello che di rilevante accade lontano da Bruxelles.
Guardare al di là delle istituzioni dell’Unione europea significa ridurre due rischi sempre presenti per chi si occupa di Europa. Uno, essere percepiti come mortalmente noiosi. Un po’ per le materie di cui si occupano, un po’ per il modo in cui funziona la politica a Bruxelles, molte attività delle istituzioni dell’Unione europea risultano interessanti solo a uno sparuto gruppo di appassionati del genere. Anche qui, qualcosa poco a poco sta cambiando. Ma come sanno tutti i direttori editoriali e i direttori di giornale, è ancora vero che mettere la parola “Europa” nel titolo di un libro o di un articolo allontana automaticamente molti potenziali lettori.
Secondo rischio per un giornale europeo, finire per fare comunicazione istituzionale: il Parlamento ha discusso questo, la Commissione ha deciso quest’altro, e così via. È essenziale evitare di appiattire l’Europa su quello che fanno le istituzioni di Bruxelles. Bisogna invece fare emergere idee diverse di Europa, dando loro spazio e voce nel dibattito pubblico. Questa operazione è fondamentale per spezzare la dialettica Europa sì/Europa no: andrebbe riconosciuto che un campo europeo ormai esiste, che piaccia o meno. Non è più questione di decidere se vogliamo un’integrazione europea, si tratta invece di decidere quale Europa vogliamo.
I limiti più seri di Politico sono due. Il primo è la lingua. Nel lungo periodo, tutti sapremo leggere serenamente in inglese. Fino ad allora però, scegliere di pubblicare solo in inglese significa rivolgersi a quel genere di pubblico che, per formazione o professione, già si sente “europeo”. Proprio per la nuova prospettiva che propone, sarebbe invece molto utile se Politico riuscisse a penetrare nelle sfere pubbliche nazionali.
La seconda cosa che manca a Politico probabilmente continuerà a mancargli, dato il suo nome. È occuparsi di avvenimenti non solo politici. Mentre l’emergere di un campo europeo in ambito politico ed economico è ormai evidente, sarebbe ora di riconoscere che esiste un campo europeo anche in altri ambiti, come la società, la cultura, lo sport. L’Europa non è solo i regolamenti delle istituzioni di Bruxelles: l’Europa è anche il festival di Cannes, gli scritti di Günter Grass, le partite di Champions League. Raccontare queste storie da una prospettiva europea è possibile, basterebbe solo mettersi a farlo.