A me non la racconti
Gli immigrati in Italia sono il 7% della popolazione, ma le persone pensano che siano il 30% – e non c’è molto modo di fare loro cambiare idea. Nel sondaggio circolato ieri sullo scarto tra percezioni e dati reali c’è una cosa particolarmente interessante, ed è la domanda che i sondaggisti hanno rivolto agli intervistati che avevano clamorosamente sbagliato a stimare la percentuale di immigrati in Gran Bretagna. I sondaggisti hanno chiesto loro a che cosa attribuissero lo scarto tra la loro stima e i dati reali. Pochissimi lo hanno attribuito a delle carenze dei mezzi di informazione: la maggior parte degli intervistati ha semplicemente difeso le proprie percezioni, affermando di non credere ai dati ufficiali che le contraddicono.
La domanda è stata fatta solamente agli intervistati britannici, ma è facile immaginare che i risultati sarebbero stati molto simili in un paese come l’Italia dove prosperano i “a me non la racconti”. Il problema non è solo quello di spingere le persone a informarsi di più e di offrire loro un’informazione migliore. Si possono pure fare dei buoni giornali che riportano notizie accurate: ma non è mica poi detto che le persone credano a quello che leggono. Soprattutto in Italia, questa diffidenza dipende solo in parte dalla scarsa accuratezza di molta informazione. Dipende anche da ragioni più profonde, legate all’annoso problema del complicato rapporto tra élites e resto della popolazione nel nostro paese (su cui ha scritto pagine illuminanti Giovanni Orsina nel suo libro sul berlusconismo).
Se pure le persone dovessero leggere giornali ben fatti e credere alle notizie che questi riportano, non è però scontato che si formerebbero delle opinioni meglio fondate. La storica israeliana Keren Yarhi-Milo ha recentemente analizzato i modi in cui i leader politici prendono le decisioni di politica estera. Si tratta di decisioni per le quali ricevono informazioni e analisi molto curate, e che più di altre richiedono valutazioni razionali e ponderate. Yarhi-Milo mostra che, indipendentemente dalle informazioni che riceve, un leader tende a decidere in base alle sue percezioni e ai suoi pregiudizi iniziali: fa attenzione alle informazioni quando confermano i suoi pregiudizi, mentre tende a trascurarle quando li contraddicono. Se i pregiudizi hanno questo peso nella formazione di opinioni che incidono sugli interessi nazionali, figuriamoci il peso che hanno nella formazione delle nostre, di opinioni.
Se i nostri pregiudizi sono così resistenti, è vano cercare di cambiarli quando ormai si sono formati: non sarà la pubblicazione di alcuni dati ufficiali a modificare le nostre opinioni. Forse allora l’unico modo per migliorare la qualità del dibattito pubblico è intervenire quando si formano, i pregiudizi: fare buona informazione probabilmente non serve a farci cambiare le nostre opinioni di oggi, ma magari almeno serve a rendere meno sbilenchi i nostri pregiudizi di domani.