Problemi di memoria
Quando passo dalla sala d’aspetto della stazione di Bologna, quello che mi fa più impressione non è lo squarcio nella parete, né l’avvallamento provocato dalla bomba, e nemmeno la stele con i nomi delle vittime. Quello che fa più impressione sono le persone reali che si trovano oggi in quella sala d’aspetto, perché permettono di immaginare in maniera molto più vivida e precisa cosa accadesse in quel posto anche un solo secondo prima dello scoppio della bomba. Ci sono quelli che dormicchiano, quelli che leggono il giornale, quelli che chiacchierano, quelli che mangiano. Nonne, nipoti, coppie, persone da sole. È ed era gente normale che faceva cose normali, e che potremmo benissimo essere stati noi: non erano degli eroi lontani e austeri, né dei personaggi eccezionali votati al martirio.
In maniera simile, quello che fa più impressione a Hiroshima non sono la cupola atomica e il museo della bomba, che pure è fatto in maniera magistrale. È tutto talmente difficile da immaginare che un pannello esplicativo, delle foto in bianco e nero e degli oggetti incredibili aiutano solo fino a un certo punto. Quello che fa più impressione a Hiroshima è tutto ciò che accade oggi al di fuori di quell’area molto particolare che è il Parco della pace: quello che accade ogni giorno nelle strade normali, sui tram, nei negozi, nei ristoranti, nelle case. Di nuovo, gente come noi che fa cose e gesti comuni, gli stessi che facevano i loro nonni quella mattina di agosto.
I volti e le persone comuni rendono molto più facile l’immaginazione e l’immedesimazione rispetto ai monumenti. I grandi sacrari e ossari dei caduti della prima guerra mondiale trasmettono bene l’eccezionalità di quelle sorti, ma rendono molto difficile immedesimarsi con esse e comprenderle. Oppure il museo che conserva i resti dell’aereo esploso sopra Ustica: quell’aereo rimane un oggetto distante e misterioso, e ancora più distanti rimangono le persone che vi si trovavano. Le tragedie sono eventi eccezionali, che donano un’aura di eccezionalità alle loro vittime. Si tende a pensarli come a eroi e martiri: ma è molto difficile immedesimarsi con degli eroi e dei martiri, di cui magari conosciamo solo un nome inciso nel marmo. Molto più facile immedesimarsi con un ragazzo di Hiroshima che gira in bici o con uno che legge un libro in sala d’aspetto.
Ci sono posti come Hiroshima o la stazione di Bologna in cui uno va e ritrova sostanzialmente tutto molto simile a com’era subito prima dello scoppio della bomba. Ci sono invece posti e mondi che non esistono più e in cui non si può tornare. Di recente ho letto I fratelli Ashkenazi di Israel J. Singer, che è un romanzone su un mondo che non esiste più, quello delle comunità ebraiche dell’Europa centro-orientale. La storia è stata scritta e termina poco prima dell’invasione della Polonia da parte dei nazisti, e quindi ha due finali: quello scritto da Singer, e quello scritto dalla storia. Singer non ce la racconta, ma noi conosciamo bene la fine che faranno di lì a poco la gran parte dei personaggi di cui abbiamo seguito le sorti per centinaia di pagine.
La letteratura forse è in crisi, ma svolge ancora straordinariamente bene la funzione di aiutare a immedesimarsi con storie e vite altrui – soprattutto quando si tratta di mondi ormai scomparsi. Anche nel caso di Singer, quello che funziona particolarmente bene dal punto di vista della memoria e dell’immedesimazione, è il racconto di storie di persone che non erano ancora state colpite dalla tragedia. Sono storie piuttosto comuni e sono persone che ci assomigliano, ciascuna con le sue caratteristiche e debolezze, le sue ambizioni e le sue preoccupazioni familiari. Non sono vittime da commiserare o eroi da ammirare, né nomi di un elenco o schiere indistinte di prigionieri col cranio rasato. Nel romanzo di Singer non c’è la Shoah: eppure la vicinanza dei suoi personaggi alla nostra esperienza quotidiana aiuta a sentire e comprendere la portata della cancellazione di quel mondo molto meglio di quanto non riescano a fare tanti altri libri, film e monumenti.