Nolite timere

Qualche giorno fa (il 2 di Settembre), c’è stato il funerale di uno dei più grandi poeti dei nostri tempi: Seamus Heaney.

Uno di quelli (tra i pochissimi) capaci di raggiungere pensieri posti a profondità abissali, senza appesantire furbescamente i suoi versi con paroloni pomposi e incomprensibili; per arrivare, invece, con le sue poesie al centro del cuore del lettore, sfruttava solo la scia della sua sensibilità, facendosi strada con parole comuni e con la leggerezza che è solo della semplicità.

Immancabilmente, terminato l’ultimo verso di una sua poesia (una qualsiasi delle centinaia che ha scritto) quel sentimento che sentivi ingarbugliato e inesprimibile dentro di te, diventava così chiaro, lineare e preciso, da farti illudere che tu stesso saresti potuto essere quello che aveva scritto ciò che avevi appena letto.

L’ultimo degli ultimi suoi versi, le sue ultime parole, le ha rivelate suo figlio Michael durante la sua orazione funebre. Sembra che fossero solo due parole, scritte in un SMS inviato da Heaney alla moglie pochi minuti prima di morire: Noli timere (latino per “non avere paura”).

Il modo, il momento, e l’autorevolezza intellettuale di Heaney, rendono queste parole molto più importanti e significative dell’essere un ultimo gesto di tenerezza di un marito che cerca di rassicurare sua moglie, costretta a dover affrontare il dolore inevitabile per la sua imminente assenza.

Rivelando il suo contenuto – portandole cioè dalla sfera privata e familiare alla sfera pubblica –  è come se idealmente il figlio di Heaney l’avesse inoltrato alla cartella messaggi di ciascuno di noi e “Noli timere” si leggesse “Nolite timere”, nella sua forma plurale; non più solo un messaggio di un marito verso sua moglie, ma quello di un poeta al mondo intero.

Un mondo spaventato più che mai da paure globali, come le recenti minacce di guerre, le crisi finanziarie, i disastri ecologici; tanto quanto da paure personali, come perdere il lavoro (e anche il non trovarlo), la fragilità delle relazioni, il fare le mosse sbagliate con i propri figli o non essere un figlio all’altezza delle aspettative, il non aver abbastanza successo, soldi, amici, cose…

Non so dove effettivamente sia arrivato questo messaggio, quale sia stata la sua forza propagatrice. So però che per qualche motivo a me è arrivato e che da quando l’ho ricevuto, sto cercando di capirne il significato più esteso: di cosa non dobbiamo avere paura? Perché non dobbiamo avere paura? E a cosa ci servirà, nel caso lo diventassimo, l’essere coraggiosi?

Scandagliando tra i miei pensieri (e le mie paure) alla ricerca delle risposte a queste domande, mi sono ricordato di una ricerca – che avevo letto un po’ di tempo fa – sullo sviluppo dell’intelligenza degli animali.

Raccontava di un gruppo di studiosi che aveva scoperto che l’intelligenza funziona solamente quando un animale non è impaurito. Nei loro studi, gli scienziati si resero conto che se il problema da affrontare è troppo difficile o se l’investigatore mostra impazienza, l’animale ha una reazione di paura con la conseguenza di paralizzare il suo cervello; in altre parole un’atmosfera di fiducia e amore era essenziale per esprimere a pieno le proprie capacità intellettive.

Avevano scoperto che l’amore precede biologicamente l’intelligenza (anche nel feto il cuore si sviluppa prima del cervello…) e che se l’uomo è considerato l’animale più intelligente di tutti è proprio perché è il più affettuoso.

Allora, ho pensato, forse Seamus Heaney con il suo messaggio voleva dirci questo: se non avremo paura, vivremo in tempi meno stupidi di questi.

Sia così. Che le sue ultime parole possano diventare le nostre prime parole domani mattina.

Lorenzo De Rita

Vive ad Amsterdam, dove dirige The Soon Institute - un collettivo di inventori che sperimentano e sviluppano prototipi per la società che verrà. Ha aperto recentemente una casa editrice che pubblica libri difficili ed è il co-fondatore di jointhepipe.org