Pietro e Cecrope
Pietro era un grande industriale conosciuto in tutto il mondo. Cecrope era un educatore e poeta sconosciuto ai più. Sia uno sia l’altro – per motivi e in modi totalmente differenti – hanno fatto parte della mia adolescenza come figure alloparentali e mi sono stati maestri di vita.
Pietro aveva lo sguardo fisso sul futuro ed era capace di inventarsi orizzonti ancora inesistenti. Se qualche volta lo distoglieva era solo per osservare le mani della gente, perché credeva che dalle mani si può capire il carattere intimo di una persona. Le sue preferite erano quelle dei suoi operai, che raccontavano storie di fatica, sacrificio e altruismo. Gli piacevano pure quelle di pittori e musicisti, anche loro impastatori come i suoi operai, ma di colori e note.
Cecrope invece aveva lo sguardo attento. Badava ai dettagli, anche ai più minuscoli, perché era convinto che la vera immaginazione non fosse quella fantastica che evade dal reale rifugiandosi in mondi inventati. La vera immaginazione era l’attenzione, che non ha paura della realtà, ma anzi la affronta a viso aperto, gli entra nelle viscere e la cambia. Guardava i muri delle classi delle scuole e si chiedeva “come fosse possibile che intere generazioni d’insegnanti avessero potuto tollerare ammuffiti rifacimenti di Paperino penzolanti per uno scotch…”. Il suo insegnante ideale doveva considerare la questione estetica come un fatto etico. Perché la bellezza era un fatto etico per lui; se una cosa era bella, non poteva che essere giusta e se era giusta non poteva non essere bella.
Pietro e Cecrope erano “uomini-clorofilla”: assorbivano esperienze ed erano avidi di scoperte, non per un fine personale, ma per il puro gusto di disseminarle in giro rinnovate di significati e impreziosite dalla loro sensibilità – a disposizione di tutti, soprattutto dei più giovani.
La loro generosità era la loro intelligenza e generosi lo erano molto.
Una generosità di cui ho beneficiato anch’io ricevendo in dono qualche elettrone della loro saggezza, che a mia volta ho elaborato (per quanto ne sono stato capace) e reimmesso nel mio ecosistema personale, sentimentale e professionale.
Da Pietro, per esempio, ho ricevuto il suggerimento di cercare le idee felici, (perché quelle belle e geniali sono vanitose, quelle grandi sono megalomani e quindi disumane e quelle brutte sono brutte e basta…). Le idee per lui avevano un’anima, avevano a che fare con le emozioni, qualcosa al limite dell’amore; l’aspetto intellettuale lo interessava di meno, lo trovava più banale, perché prevedibile e meccanicistico.
Da Cecrope ho ricevuto una definizione ribaltata della parola “inconcludenza”, che nel suo modo di vedere non è l’incapacità di concludere qualcosa, ma la capacità di non finire, e cioè di mantenere viva la possibilità che una cosa diventi qualcos’altro. Il pensiero non può essere veramente creativo se non indulge nell’essere inconcludente, diceva.
Per una strana coincidenza erano entrambi di Parma, entrambi avevano cognomi molto famosi e a entrambi era stato dato lo stesso nome dei loro illustri nonni.
Ma se oggi si trovano a condividere il titolo di questo post è per un’ulteriore coincidenza: entrambi erano nati cento anni fa, nel 1913. E per celebrare l’importante anniversario le persone che gli volevano bene li hanno ricordarti a pochi giorni uno dall’altro (con un evento pubblico a Parma per Pietro e uno a Roma, in una forma più minimalista come si confaceva al personaggio, per Cecrope).
Ricordarli ancora, qui su queste pagine, non è solo un personale atto di riconoscenza nei confronti di due persone che mi mancano moltissimo. Ma è anche perché – almeno a giudicare dall’attuale situazione politica del nostro paese e anche quella economica e quella sociale – ho il timore che la loro essenza clorofilliana manca moltissimo un po’ a tutti.
Sembra che qualcosa si sia interrotto nella catena di trasporto degli elettroni culturali della nostra società. È come se non fossimo più in grado di fare “ossidoriduzione”. Gli intermediari, gli attrattori, i reagenti, sono scomparsi dal nostro organigramma sociale.
Basta darsi un’occhiata in giro: ognuno pensa al proprio rendiconto, immagazzina quanto più può, ma si guarda bene dal reimmettere in circolo nuove energie. Viviamo come elementi sparsi, incongruenti e refrattari tra loro incapaci di comunicare, di trasmettere, di interpretare.
Il ponte che veniva usato per trasportare linfa vitale da una parte all’altra della nostra società è stato distrutto con badilate di egoismo.
Rimangono solo le due sponde ora: da una parte i giovani che non vogliono più i vecchi e dall’altra i vecchi che i giovani non li vogliono ancora; da una parte quelli che offendono e dall’altra quelli che si sentono offesi; da una parte quelli che usano parole troppo difficili da capire e dall’altra quelli che usano parole troppo facili di cui non c’è niente da capire; da una parte quelli che aspettano, ancorati alle loro ragioni e opinioni, che gli altri si convincano di passare nella loro sponda e dall’altra quelli che aspettano che siano invece gli altri a fare il passo verso di loro.
Possiamo fare due cose: rimanere a guardare l’Italia ingiallire come un organismo senza clorofilla, o ricominciare a guardare mani e muri.