Un minuto e mezzo
Ieri, insieme a un gruppetto di Italiani di Amsterdam, ho seguito il dibattito televisivo dei candidati alle primarie del centrosinistra. Dopo tante domande poco appuntite e risposte stemperate, il moderatore ha chiesto a ciascuno dei partecipanti di chiudere la serata dicendo qualcosa di centrosinistra in un minuto e mezzo.
Delusi e frustrati dalle risposte, abbiamo cominciato a inanellare un filotto di giudizi, battute sarcastiche e critiche. Chi si accaniva sugli arzigogoli lessicali di Vendola: “Se diventa primo ministro, t’immagini che disastro per i traduttori simultanei del G8?” e chi si faceva scuotere i nervi dall’autocompiacimento, autostima, autoreferenzialità, autotutto di Renzi.
A un certo punto un amico, quello che probabilmente più di tutti i presenti è riuscito col tempo ad assorbire meglio la cultura olandese della tolleranza, ci consiglia di fare meno gli sbruffoni e ci sfida a pensare cosa avremmo detto noi in quel tempo esiguo e in quel contesto plasticoso da concorrenti di quiz preserali.
Allora mi sono immaginato per un momento nel ruolo di sesto candidato. Forse avrei detto qualcosa del genere:
“Una volta l’Italia era un paese fantastico abitato da gente capace ancora di gesti e pensieri straordinari. Cose da Italiani, appunto.
Un paese dove per esempio (lo raccontava Luciano De Crescenzo in un suo libro), quando uno era allegro, perché qualcosa era andata per il verso giusto, invece di pagare un caffè, ne pagava due. Il secondo era per il prossimo cliente e veniva chiamato “caffè sospeso”. Un caffè che aspettava qualcuno che non aveva soldi, che entrava nel bar e chiedeva se per caso ci fosse un “sospeso” per lui.
Succedeva a Napoli nel Rione Sanità. Non succede più, nè lì nè altrove – e se succede ancora non ha certo più lo stesso sapore di una volta.
Quell’Italiano allegro e un po’ spaccone da ‘oggi offro io’ non c’è più. Nei caffè non ci sono più caffè sospesi ad aspettarci e cosa ancora più grave non ci aspettiamo neanche che ci siano. Abbiamo perso l’abitudine alla generosità e alla solidarietà. Ora giriamo per le strade delle nostre città avvolti in cappotti di paura per il futuro, con il bavero alzato per non vedere cosa e chi ci sta attorno.
Ecco, diventassi io il capo del governo, la prima cosa che farei, prima di qualsiasi riforma sul lavoro, delle pensioni o della sanità, sarebbe quella di reintrodurre l’usanza del sospeso.
Non mi limiterei, però, al caffè.
Inviterei gli Italiani a entrare in libreria a comprare un libro e lasciarne uno sospeso; ad andare al cinema e lasciare un paio di biglietti sospesi; ad andare in farmacia e lasciare un farmaco sospeso; andare in un museo, dal benzinaio, in macelleria, dal calzolaio e lasciare un sospeso.
Farei dell’Italia un paese sospeso. Dove tutti possono dare il meglio di se’. Anzi, dove quel meglio da tutti, siamo lì tutti ad aspettarcelo; che sia in un bar, in una scuola, in una pista d’atletica, in un museo, in un contratto di lavoro o in parlamento.
Beh, temo che il mio minuto e mezzo da sesto candidato sia finito, e sia tempo di lasciare la parola ad altri post.