Dieci pezzi che i Beatles non hanno mai inciso davvero
Cinquant’anni fa i Beatles cominciavano a sciogliersi, dopo aver inciso più o meno 250 brani che sul Post ascolteremo dal peggiore al migliore. Senza smettere di domandarci: in che senso “peggiore”? in che senso “migliore”? Davvero That Means a Lot è peggiore di Ticket to Ride o la pensiamo così soltanto perché la prima è stata scartata? Davvero Junk è spazzatura? E se Teddy Boy fosse un capolavoro? Ah ah ah – NO.
Le 250 migliori canzoni dei Beatles (#254-235).
(La playlist #234-225 su Spotify).
You say you’re gonna leave, you know it’s a lie / ‘Cause that’ll be the day when I die. Secondo la leggenda (avvalorata dal film Nowhere Boy), That’ll Be The Day sarebbe stata registrata il 15 luglio 1958, pochi giorni dopo la morte di Julia, la madre di Lennon, in un incidente stradale. I 15 scellini necessari per stampare il disco di lacca sarebbero stati l’ultimo regalo di Julia al figlio. Come facciamo a sapere che è una leggenda? Colin Hanton, il batterista, ricorda una giornata gelida, tanto che era entrato nella piccola sala di registrazione con una sciarpa e l’aveva usata per attutire il rullante quando il proprietario della sala si era lamentato per il rumore.
Hanton potrebbe anche ricordarsi male, così come voi magari non ricordate bene quando avete inciso questo o quel nastro con la vostra band di trent’anni fa (che però non è diventata la più famosa al mondo). Il vero motivo per dubitare dell’aneddoto è che combacia quasi perfettamente col testo della canzone: mi hai dato tutti i tuoi abbracci e i baci e anche i soldi. Il giorno che mi lascerai sarà il giorno in cui piangerò, sarà il giorno in cui muoio. Cose che succedono al cinema, più che nella realtà.
That’ll Be the Day è uno dei due pezzi incisi dai Quarrymen presso il piccolissimo studio del signor Phillips, il retrobottega del suo negozio di dischi e giradischi. Gli acetati avevano il grosso difetto di deteriorarsi dopo pochi ascolti: i professionisti li usavano per incidere demo da sottoporre ad altri artisti, i dilettanti per creare un bel ricordo da conservare, più che riascoltare. I cinque Quarrymen si mettono d’accordo per conservarlo una settimana a testa: John lo tiene la prima settimana, poi lo passa a Paul che dopo una settimana lo passa a George che dopo una settimana lo passa a Colin che dopo una settimana lo passa a John “Duff” Lowe, che lo infila da qualche parte e se lo dimentica vent’anni… per poi cederlo al milionario Paul McCartney in cambio di una cifra che non è mai stata resa nota. Ora lo possiamo ascoltare tutti gratis su Internet. In mezzo a un baccano abbastanza ordinario, la voce di John è già inconfondibile.
233. Bésame Mucho (Velázquez; incisa nel 1962 durante il provino della Decca)
Cha-cha-boom! Se ora fate partire la Bésame dei Beatles su Spotify, e subito dopo cominciate a cercare tutte le Bésame Mucho su Spotify, finirà la canzone prima che riusciate a visualizzarle tutte, volete provare? Sennò fidatevi. La leggenda più diffusa su Bésame Mucho è che l’autrice, quando la compose (a 24 anni) non era ancora stata baciata, né mucho né poquito: nada de nada, povera Consuelo Velázquez. Paul mentre canta non suggerisce la stessa inesperienza, anzi si atteggia a crooner consumato e in effetti un dettaglio comune di molte cover di quel provino (alcune abbastanza improbabili) è che presuppongono nell’interprete un carisma da latin lover. The Sheik, Bésame, la stessa Ain’t She Sweet che era pur repertorio di Sinatra. E siccome a scegliere i pezzi fu Brian Epstein, viene spontaneo domandarsi: l’ha fatto apposta? Sul serio stava cercando di lanciare quattro teddy boy di Liverpool calcando sul loro sex appeal? O semplicemente si fidava del suo gusto, e il suo gusto lo portava in una direzione un po’ più camp di quella che poi i Beatles avrebbero preso?
Bésame i Beatles avevano iniziato a suonarla ad Amburgo, in una fase in cui erano juke-box viventi e l’eclettismo, durante concerti che duravano due o tre ore, più che una scelta estetica era una necessità. Il brano arriva alla Decca perfettamente rodato, e se ci sembra assurdo è appunto perché i Beatles lo lasciarono a quel bivio; ma se alla Decca fossero piaciuti, chissà.
232. In Spite of All the Danger (McCartney-Harrison; registrato su acetato dai Quarrymen nel 1958; ora in Anthology 1).
Malgrado tutto il pericolo, malgrado tutto quello che potrebbe succedere, farò qualsiasi cosa per te. In Spite of All the Danger è incisa sull’altro lato del disco 78giri in acetato prodotto nello studio del signor Phillips in un giorno imprecisato del 1958. Se vi sembra assurdo che questa istantanea sfuocata di 60 anni fa sia di gran lunga il pezzo più ascoltato su Spotify tra tutti quelli che abbiamo passato in rivista fin qui, considerate che è inciso sul disco più raro e quotato mai esistito. Ed è in assoluto la prima canzone originale dei Beatles… che non si chiamavano ancora così: diciamo che è la prima canzone originale di Paul McCartney, anche se una scritta a pennarello sulla label dell’acetato reca la dicitura “McCartney-Harrison”, in quanto quest’ultimo era l’autore dell’assolo di chitarra. Lo stesso Paul poi sta smaccatamente ricalcando un pezzo di Elvis Presley che ha ascoltato a un campo scout, Tryin’ to Get to You: la melodia è praticamente identica, anche il testo è simile. Nel 1958 Paul non ha ben chiaro il concetto di proprietà intellettuale: crede che le canzoni siano di tutti, e se decide di cambiare le parole probabilmente è perché non si ricorda il testo di Elvis né è riuscito a procurarsi il disco o lo spartito. Non ha nessuna velleità autoriale, per ora: non sta cercando neanche di sembrare originale. Ci riesce lo stesso.
Quel che rende In Spite una canzone diversa, non già beatlesiana ma nemmeno così presleyana, è l’intreccio vocale. Lasciando perdere il batterista, che suona troppo lontano dal microfono, i Quarrymen consistono di tre voci e tre chitarre che suonano gli accordi praticamente all’unisono, salvo il momento del non esaltante assolo. Magari il “muro di chitarre” era l’unico sistema per farsi ascoltare alle feste senza amplificatori, ma nello studio del signor Phillips di tanto baccano non c’è bisogno, è ridondante. Per contro, le tre voci sono già alla ricerca di armonizzazioni sofisticate (il che non significa che le trovino).
L’altro motivo per cui In Spite negli ultimi anni è diventata così popolare potrebbe essere la versione filologicamente correttissima contenuta nel film Nowhere Boy, un esempio clamoroso di potere del cinema, anche mediocre. Nowhere Boy non è un capolavoro, e il modo in cui utilizza In Spite per farci piangere non ha nulla di originale: è un banale montaggio di immagini di Julia Lennon, di John che balla con lei, che si ricorda di lei, che canta questa canzone evidentemente a lei. Funziona benissimo anche se non è vero niente: la canzone è di Paul, non ha nulla di strappalacrime in sé, John la canta con partecipazione ma non fa ancora spettacolo dei suoi sentimenti.
231. You Know What To Do (Harrison; outtake del 1964; ora in Anthology 1).
So if you want me just like I need you… You Know What to Do è la canzone che per poco non ha stroncato la carriera compositiva di George Harrison. Forse. Quel che è sicuro è che George era già stato accettato come terzo compositore dei Beatles nel loro secondo LP, che ospitava Don’t Bother Me, incisa nel settembre del 1963. Per ascoltare una sua nuova creazione (I Need You) i fan avrebbero dovuto aspettare il febbraio del 1965: nel frattempo altri due album erano usciti senza brani firmati da George. Cosa lo aveva bloccato?
Secondo George Martin, Harrison si era scoraggiato quando “nessuno di noi aveva apprezzato una cosa che aveva scritto”. Ora, l’unica “cosa” di Harrison che conosciamo tra il 1963 e l’inizio del 1965, è appunto You Know What to Do, registrata in fretta un giorno prima di partire per un tour, con Paul al basso e forse John al cembalo (Ringo era malato); non sembra onestamente questo orrore di canzone. Se la strofa è abbastanza banale, nel bridge incontriamo forse il primo accenno di descending bass line, un trucchetto che Paul saprà sfruttare meglio in Michelle, intorno al quale John costruirà Cry Baby Cry e lo stesso George farà risplendere in While My Guitar. Insomma, bastava insistere: e invece George si bloccò. Non doveva essere sempre facile lavorare con la ditta Lennon/McCartney. Questi ultimi a dire il vero stavano entrando in una breve fase di stallo creativo che li avrebbe portati, pochi mesi dopo, a consegnare alle stampe il loro disco più involuto: Beatles For Sale, con una sola hit, qualche esperimento e diverse cover poco interessanti. You Know What To Do non avrebbe abbassato la media più di tanto, ma George si era bloccato. Just call my name if you’re lonely…
230. That Means A Lot (Lennon-McCartney; outtake del 1965-66, ora in Anthology 2).
C’è un cartoon divertente in giro per internet (oddio forse è divertente soltanto per i beatlemaniaci), comunque in questo cartoon ci sono Paul e John intorno a un microfono che fanno un duello di composizione mentre in cabina siedono George, Ringo e George Martin. Sulla stessa base Paul canta That Means A Lot e John Ticket To Ride: alla fine tutti votano per John, e Paul si mette a piangere. Ok. In effetti la progressione di That Means A Lot assomiglia un po’ a quella di Ticket To Ride, soprattutto nelle prime versioni. Ma non c’è mai stata una gara del genere: quando Paul propose That Means A Lot, il brano di John era già stato completato. That Means A Lot, scrive Ian MacDonald, è un raro esempio di Lennon e McCartney che brancolano nel buio: cercano un motivo, si accorgono che è troppo simile a qualcosa che hanno appena registrato, provano a modificarlo, ma non funziona niente, proprio come succede ai comuni mortali. That Means A Lot non solo somiglia troppo a Ticket, ma ne tradisce tutti gli aspetti rivoluzionari: è un passo indietro dopo un grande salto, un incidente. Ascoltarla è farsi un’idea su cosa sarebbero diventati i Beatles se invece di spingere continuamente sull’acceleratore avessero deciso di calmarsi un po’ e presidiare i territori già esplorati. Probabilmente non era un’opzione praticabile: l’unico modo per restare in piedi era continuare a correre.
229. Junk (McCartney, Esher Demo, 1968; completato poi nel primo disco di Paul McCartney, McCartney; la prima versione si trova in Anthology 3).
Cianfrusaglie. Ci sono brani dei Beatles che parlano di sé stessi; Junk parla dei tesori che lasciamo marcire in solaio o in cortile e a risentirla su Anthology sembra esattamente questo: ciò che rimane di un tesoro abbandonato. Il brano è già praticamente completo durante la prima session informale del 1968, quella in casa Harrison in cui i Quattro portano tutto quello che hanno composto prima e durante l’esperienza indiana, si rendono conto di avere già materiale per più di un LP e decidono che ‘pubblicheranno tutto’, ovvero che il prossimo album sarà doppio. Ma non è vero che pubblicheranno tutto, per esempio accantoneranno Junk come cianfrusaglia, e non è semplice capire il perché.
Junk contiene anche la prima riflessione di Paul sul consumismo, se non sugli eccessi della sua esperienza di giovane rockstar affetta da shopping compulsivo. In pochi minuti avrebbe aggiunto al Disco Bianco una dimensione in più, tra tante che ne ha già. Certo, non è che sia stata buttato via: se mi va di ascoltarlo posso sempre andarmi a cercare McCartney, il disco in cui Paul la incise due anni dopo. Ma è uno di quei dischi che anche se li apprezzi preferisci lasciarti indietro – quel tipo di dischi che dopo un po’ i ragazzi trovano in soffitta, appunto. E forse è perfetto così, quell’amarognolo che senti in fondo è esattamente quello che Paul voleva farti sentire. Maledetto Paul.
228. Step Inside Love (Lennon-McCartney; incisa da Cilla Black nel 1968; suonata per scherzo durante la lavorazione a The Beatles il 16/9/1968, ora in Anthology 3).
You look tired, love; let me turn off the lights… Secondo una voce giornalistica probabilmente inverificabile, le due canzoni più eseguite della storia della musica sono Yesterday e (subito dopo) Garota de Ipanema. Questo cosa significa? Anche niente, ma immaginate per un attimo che i Beatles si fossero dedicati a scrivere pezzi di bossanova. Davvero, perché no? Nel ’68 spaziavano dell’heavy metal allo ska, perché non ci hanno nemmeno provato? Perché la bossanova è più difficile, ovvio. Ma fino a un certo punto: in fondo se c’è qualcosa che hanno in comune con Gilberto è proprio la passione per gli accordi strani che all’inizio suonano dissonanti e poi ti ci affezioni. Invece una colore che alla loro tavolozza sembrava mancare è quel timbro rilassato, languido, senza il quale non si dà bossanova – proprio quel timbro che stava cercando Paul quella sera di settembre, mentre registrava I Will. Si capisce che Paul una bossanova avrebbe voluto cantarla, in un disco dei Beatles. Ci aveva già provato prestissimo, con la cover di Till There Was You (’64), ma comporne una era un altro paio di maniche. Step Inside Love era una mezza bossanova che aveva scritto per lo show televisivo di Cilla Black, ex compagna di Cavern scoperta, come i Beatles, da Brian Epstein. Spogliata da tutta la fanfara orchestrale, sussurrata in un microfono, accompagnata da quegli accordi sempre un po’ imprevedibili, è la più esplicita preghiera che Paul poteva rivolgere ai compagni: ragazzi, dai, proviamoci. Potremmo farcela, potremmo sbarcare sulla spiaggia di Ipanema anche stasera. I compagni non lo prendono sul serio. Quella sera sono solo due (manca George) ma di buon umore, forse troppo. Ringo è alle maracas, John si diverte con legnetti e altre percussioni. Lo stesso Paul non insiste più di tanto, e alla fine si dissocia dal risultato attribuendolo a un tale “Joe Prairies” (una storpiatura di Pereira?) e ai suoi “Prairie Wallflowers”. Niente Ipanema nel Disco Bianco, abbiamo scherzato. Peccato però.
Step Inside Love fu un discreto successo, anche perché si sentiva in tv una volta alla settimana e c’era tutto il tempo per affezionarcisi; per metà stagione Cilla dovette accontentarsi di cantarne la prima strofa, perché era l’unica che Paul aveva scritto; quando finalmente riuscì a incontrarlo e convincerlo a completarla, Paul notò che Cilla sembrava stanca, forse provata da quel ruolo di soubrette, e lo scrisse: “You look tired, love”. Insomma Paul scriveva le prime cose che gli venivano in mente e fa un po’ effetto pensare che sono proprio le parole che Cilla si è fatta incidere sulla tomba.
227. Los Paranoias (Lennon-McCartney; improvvisazione estemporanea durante la lavorazione a The Beatles, 16/9/1968, ora in Anthology 3).
Sing à la latina! Inventare buffi pseudonimi d’artisti era uno scherzo ricorrente tra i Beatles in sede di registrazione (in fondo anche Sgt Pepper è nato così). Quando Paul abbozza i “Prairie Wallflowers”, John ribatte con “Los Paranoias”, un termine che a detta di Paul faceva parte dello slang portuale di Liverpool. Paul ridacchia e ci inventa lì per lì un riff: “Come on enjoy us / Los Paranoias“. John in falsetto protesta: “I can’t make it”, e intanto qualcuno, lui o Ringo, fa un gran casino tribale coi legnetti. Ogni tentativo di impostare una bossanova va a farsi benedire. Però è sempre un piacere sentire che si divertivano. Ci sono alcuni brani dei Beatles (You Know My Name, Hey Bulldog) che sembrano avere principalmente questa funzione: ricordare agli ascoltatori che i Beatles non hanno sempre litigato, anzi. Certe sere potevano andare avanti tutta la notte a suonare cretinate coi registratori accesi, così, per ridere. Tutto questo può spezzarti il cuore come quei filmini super8 in cui ti ritrovi più giovane a giocare con amici che non ci sono più o che non sono più tuoi amici. Come on, enjoy us! (I can’t make it).
226. Teddy Boy (McCartney; outtake del 1969 ora in Anthology 3; McCartney la incise nel suo primo disco omonimo).
Ma poi ci sono canzoni che sono coltellate alle spalle, e Teddy Boy è la peggiore. Ci sono canzoni inutili e canzoni dannose, ma Teddy Boy è in un cassetto tutto suo, quello delle canzoni catastrofiche. Se non è quella che ha spaccato i Beatles, è per il semplice motivo che le crepe erano già abbastanza profonde e non sarebbero sopravvissuti comunque. Per come la imbastisce al microfono durante le difficili sessioni del gennaio ’69, è la storia di un “teddy boy” che sotto la patina da duro è dolce e mammone come un orsacchiotto, appunto: e se avete più o meno presente la situazione psicologica di John in quel periodo, ve lo immaginate già stringere i pugni. Ma nella terza strofa la mamma di Teddy incontra un “another man”, Paul canta proprio così e lo canta di fianco a John, e pretende che John gli dia pure una mano coi cori.
L’anno successivo John avrebbe iniziato un faticoso percorso di terapia allo scopo di superare il trauma dell’abbandono materno. Proprio come la mamma di Teddy, quella di John aveva incontrato un altro uomo, e John a cinque anni era andato a vivere da zia Mimi. Julia non aveva smesso di vedere il figlio; gli aveva insegnato a suonare Fats Domino al banjo, e poi era morta in un incidente stradale. John a quel punto si era già evoluto nel teddy boy del quartiere, ma “Teddy don’t worry, now mummy’s here taking good care of you“, canta Paul, e magari c’è Yoko nei paraggi e John si innervosisce anche solo se la fissi per più di un secondo.
Che Yoko fosse una figura materna lo aveva ammesso John già nel ’68, quando tra i versi di Julia si era lasciato sfuggire un “Ocean’s Child”, figlia dell’oceano, che è il significato degli ideogrammi che compongono il nome Yoko. Che questa nuova madre, dietro a una naturale possessività, nascondesse ambizioni manageriali era un’osservazione che Paul evidentemente non riusciva più a tenere per sé. Sceglie dunque di affidarla a una melodia che è poco più di una filastrocca irrisolta, sbilenca, che induce l’ascoltatore a domandarsi per un paio di minuti: ma ci è o ci fa? Si è accorto che sta mettendo a nudo il lato più fragile e rimosso del suo amico e socio in affari, o è l’inconscio che sta giocando un brutto scherzo anche a lui? Si tratta di un maldestrissimo tentativo di trasformare la musica in terapia (quel che poi John farà nel suo primo disco da solo), o di un’orribile gaffe? E se te lo domandi tu che hai avuto una vita famigliare standard, figurati un tizio devastato da dipendenze e nevrosi come John in quel momento. Tanto più notevole il fatto che invece di mandare Paul a quel paese, John si limiti a sabotarlo intervenendo nel ritornello nei panni di un maestro di ballo “Take your partners, dosi-do, hold them tight and don’t let go“. Un modo abbastanza garbato di dire: Paul, questa fa schifo.
Perché oltre a poter essere interpretato come un atto ostile nei confronti del partner, Teddy fa proprio schifo come pezzo e getta una luce sulle difficoltà impreviste che McCartney si troverà davanti, come compositore, dopo il divorzio. Nel biennio ’69-’70 Paul comincia a sbandare: proprio nel momento in cui vorrebbe imporre un suo controllo creativo soffre il fatto che nessuno sta più controllando lui; alterna trovate geniali (Let It Be) ad altre che mal si conciliano con il gusto dei compagni (Obladì) se non lo sfidano apertamente (Maxwell’s Silver Hammer). Era un momento psicologicamente molto teso, e ognuno reagisce alla tensione a modo suo. George e John approfittarono della situazione per scrivere alcune delle loro cose migliori, Paul si intestardì su Maxwell e Teddy Boy.
225. 12 Bar Blues Original (Lennon-McCartney-Harrison-Starkey, incisa nel 1965 durante la lavorazione di Rubber Soul, poi inclusa in Anthology 2).
Quando chiesero a Lennon se esisteva del materiale beatle non registrato, lui rispose che ricordava soltanto “qualche schifoso 12 bar”. Il 12 bar blues, blues in 12 misure, è l’abc delle rock’n’roll band. Non devi neanche metterti d’accordo prima: qualcuno conta fino a quattro e alè, si comincia. Non c’è nulla da inventare, nulla da dimostrare, magari si stanno soltanto scaldando, o rilassando. Quando due anni più tardi capiterà loro di accennare il tema di una colonna sonora, finiranno di nuovo per montarla sull’ossatura di un blues (Flying), come se il 12 bar fosse il destino di qualsiasi tentativo di comporre in quattro, dal vivo, con gli strumenti in mano. Nel frattempo il blues stava tornando di moda proprio all’Inghilterra, una specie di radicalizzazione del rock praticata da gruppi come i Fleetwood Mac prima maniera. Ma il blues a cui tornerà soprattutto Lennon, dal Disco Bianco in poi, non è più la struttura fissa e rassicurante: è la musica del dolore (Yer Blues) o dell’ossessione (I Want You).
Per i Beatles del 1965 invece il blues è come il pane o l’acqua, qualcosa che di necessario, di scontato, che comunque fin qui non si è mai pensato di servire come pietanza centrale. Per questo è intrigante l’ipotesi che 12 Bar, invece di essere un semplice riscaldamento, fosse stata concepita all’inizio come la title-track di Rubber Soul, un vero e proprio manifesto: eccoci, siamo i Beatles, facciamo soul di gomma (“plastic soul” era la definizione con cui qualche critico americano aveva liquidato i Rolling Stones). Forse a un certo punto voleva essere una rivendicazione orgogliosa: davvero credete che non sappiamo suonare il blues? Sentite qua. Magari poi si portarono a casa l’acetato, lo riascoltarono con comodo, e si resero conto che… era davvero un blues di gomma. La versione di Anthology mette assieme i momenti meglio riusciti di un’esecuzione più lunga, che sfora i sei minuti. Anche così rimane comunque una jam qualsiasi, non così “schifosa”, ma più divertente da suonare che da riascoltare.