Il Cristo, come non l’avevano mai visto
(Questo pezzo è il seguito di Il selfie di Gesù, pubblicato il luglio scorso. Credo che si possa leggere anche separatamente. Si parlava di immagini acheropite, ovvero non prodotte da mano umana, ma impresse miracolosamente sulla tela: se ne parlava come di possibili antenati della fotografia. E seguendo la pista di una immagine del volto di Gesù smarrita nel medioevo, si arrivava alla Sindone).
4 maggio – Santa Sindone.
…La Sindone di Torino, sempre lei. Il telo più studiato del mondo, a quanto dicono. Qualche mese fa l’ennesima ricerca sulla Sindone approdò sulle prime pagine, il che di solito è un buon segno: quando si tira fuori la Sindone di solito è perché non sta succedendo niente di troppo drammatico nel mondo. Scoprimmo che “metà delle macchie di sangue sono false“, un titolo che è capolavoro nel creare dibattito senza scontentare nessuno e suggerire che metà del sangue potrebbe anche essere vero. Non credo che i responsabili dello studio in questione abbiano sollecitato un titolo del genere, eppure in un qualche modo un titolo del genere è il compendio di tutta la sindonologia: anche chi vuole dimostrare che la Sindone non è acheropita, ovvero è stata dipinta da mani umane, dà la sensazione di non desiderare mai dimostrarlo del tutto. Perché da un punto di vista epistemologico forse è impossibile dimostrare una cosa senza ragionevole dubbio? Certo, ma soprattutto perché a quel punto il mistero finirebbe, e non si potrebbero più finanziare ulteriori ricerche. Per fortuna dall’altra parte ci sono e ci saranno sempre sindonologi convinti che quel tessuto è acheropita, è miracoloso, è una proiezione tridimensionale di un cadavere palestinese del primo secolo. I sindonologi scettici lottano contro i sindonologi credenti, ma solo gli uni danno in fondo agli altri la ragione d’essere, e viceversa. A volte viene il sospetto che ormai si siano messi d’accordo, che una volta al mese vadano in trattoria insieme e alla dodicesima bottiglia di rosso ci scappino anche gli scherzi da prete, professoressa, stia più attenta guardi che macchia ha fatto, sembra il costato di Nostro Signore. Monsignore, ha ragione! e la sua chiazza di sugo sembra la stimmate sul piede. Forse dovremmo testare il tessuto per il ragù, è mai stata fatta una prova col ragù? Attenzione attenzione adesso io con la delizia al lampone provo a fare la stimmate della mano destra, se viene credibile il conto lo pagate voi. Eccetera.
La Sindone, tra le altre cose, è un insieme di macchie, e le macchie sono pericolose, anche lasciando stare Rorschach. Nelle macchie ognuno trova sempre quello che vuole trovare. La pareidolia ha origine dalla nostra stessa necessità di riconoscere al volo i volti, e decifrare rapidamente le loro espressioni. Nel corso di milioni di anni siamo diventati piuttosto bravi; il prezzo da pagare è che ogni macchia sul muro ci sembra una faccia, e ogni faccia ci vuol dire qualcosa, c’è chi ci perde la testa. Prima di affrontare la Sindone avevo studiacchiato un po’ un’immagine acheropita persino più famosa, la vergine della Guadalupe: anch’essa, come il Mandylion di Edessa, non fu immediatamente considerata acheropita: all’inizio i fedeli sapevano che era stata dipinta da un pittore (l'”indio Marcos”) ma forse all’inizio anche la pittura era una dote così rara e pregiata che si confondeva col miracolo; come nel secolo iconoclasta a Bisanzio, la sola capacità di disegnare qualcosa di simile al vero faceva di te un medium tra il divino e l’umano; poi il tempo passa, un sacco di gente impara a disegnare anche meglio di te, addirittura qualcuno inventa la fotografia e a quel punto un’immagine eccezionale deve distinguersi in qualche altro modo: nasce la leggenda dell’indios José che avrebbe ricevuto la tilma miracolosa dalla madonna sul sacro monte (sacro alla dea azteca Tonantzin, ma quella è un’altra storia). La vergine della Guadalupe diventa dunque una foto, salvo che dopo un po’ siamo talmente abituati alle foto vere che non riusciamo più a credere che la vergine della Guadalupe lo sia. Servono altre prove, e così qualcuno comincia a ingrandire le foto alla ricerca di cosa? Di macchie, si trovano soltanto macchie, ma le macchie dicono tutto quello che vuoi. La vergine ha praticamente gli occhi chiusi, ma se ingrandisci quella piccola fessura di occhio aperto ci trovi… niente, probabilmente non ci trovi niente, i buchi del tessuto, ma se ingrandisci le foto in bianco e nero trovi macchie d’inchiostro e la pareidolia fa il resto: in quelle macchie d’inchiostro vengono identificati i testimoni del miracolo, le persone che stavano guardando la tilma nel momento in cui s’impressionò con l’immagine della vergine. Che storia affascinante, che puttanata incredibile, a che livello ci si abbassa quando si cercano motivi per credere in qualcosa. Ci sono studiosi che sfidano il ridicolo, e a volte lo vincono.
Nel 2009 Barbara Frale è una stimata medievalista. I suoi studi sui Templari – studi rigorosi, basati sulla lettura degli atti del processo francese del XII secolo, finalmente resi disponibili dal Vaticano – sono stati apprezzati tra gli altri da Umberto Eco. La Frale in realtà ha anche altri interessi, non vorrebbe fossilizzarsi sull’argomento della sua tesi di laurea, ma (spiega in un’intervista), ogni volta che propone agli editori un argomento, quelli le rispondono: non hai mica invece qualche cosa sui Templari? Barbara Frale qualcosa in effetti ce l’ha. È un’idea spericolata, che potrebbe appannarne la reputazione. Le si è presentata alla mente durante lo studio dei verbali del processo, in uno di quei momenti in cui all’improvviso unisci due puntini e ti capita di urlare Eureka, sì, succede anche agli storici. È un’intuizione folle, bisognerebbe essere prudenti. Ma gli editori insistono, e l’idea rimane lì, un chiodo fisso.
Quel che succede in seguito sembra un capitolo di un romanzo di Eco: la storia appassionante di una studiosa sedotta dal demone più insidioso (per uno storico): lo spettro della Somiglianza. Cosa altro può spingere la Frale a pubblicare per il Mulino un libro in cui cerca di dimostrare che la Sindone non è, come dicono gli esami al carbonio, un panno trecentesco, ma lo stesso Mandylion custodito prima a Edessa e poi fatto portare a Costantinopoli dal basileo Romano I? È una tesi temeraria, che finisce per posarsi su una premessa ancora più ardita: la Sindone sarebbe un tessuto medio-orientale del primo secolo, le lesioni dovute alla piegatura sono compatibili con i contenitori in cui nel deserto gli Esseni tenevano i lenzuoli; sul panno oltre alla sagoma del morto si vedono delle scritte, in greco, degli sgorbi che potrebbero essere ebraico, e sia il greco che l’ebraico sono del primo secolo, nel tredicesimo sarebbero risultati incomprensibili; ciò dimostrerebbe che la Sindone non è un documento del XIV secolo ma del primo dopo Cristo; insomma la Sindone è vera, la Frale non arriva a dirlo, ma afferma che prima era custodita in un recipiente dagli Esseni, poi è passata a Edessa, poi a Costantinopoli, poi durante l’imbarazzante saccheggio del 1204 i templari l’hanno presa, l’hanno trovata un documento incredibile che provava che Gesù Cristo oltre a Dio era stato un uomo ed era morto come un uomo (seppure temporaneamente): una testimonianza che avrebbe messo a tacere ogni rigurgito monofisita, ogni tentativo degli eretici di sostenere che Gesù fosse solo Dio e non uomo, che il suo corpo fosse un fantasma, un mero involucro, eccetera eccetera.
Di eretici del genere ce n’erano molti al tempo: in particolare nella Francia meridionale, dove avevano prosperato i Catari (Albigesi) fino ai massacri del 1222-1229; qui anche i Templari avevano molte basi, il che forniva ai loro detrattori un argomento irresistibile: siete catari mascherati, vi siete fatti templari per sfuggire alle persecuzioni. Contro queste dicerie, i Templari decidono di ricorrere alla Sindone, simbolo ma anche dimostrazione della corporeità del Cristo; la usano per le cerimonie di iniziazione ma non raccontano a nessuno di esserne giunti in possesso, forse perché poi avrebbero dovuto ammettere di averla rubata ai bizantini. La Frale scrive tutto questo, il Mulino glielo pubblica, il libro viene recensito con tutti gli onori (un paginone centrale su Repubblica), molti colleghi restano perplessi. Roba da Indiana Jones, anzi peggio, da Dan Brown. La Frale non demorde, risponde alle critiche più cattive, scrive altri due libri sull’argomento, ormai tra le due squadre di sindonologi ha scelto da che parte stare; e indietro non si torna.
La pareidolia è probabilmente un vantaggio evolutivo: ci consente di riconoscere i volti e decifrare le emozioni. E allo stesso tempo ci condanna a riconoscere anche quello che non c’è, a trovare il senso anche a macchie che non lo hanno. Da uno storico rigoroso ci aspettiamo che resista alle seduzioni della pareidolia; non di quella che ci fa identificare occhi e naso in una macchia di umidità sul muro, ma quella che ci istiga a riconoscere cause ed effetti nelle macchie casuali della storia. La pagina più bella del libro della Frale è quella in cui Costantino Porfirogenito scopre le forme del Cristo sul Mandylion, appena recuperato dagli arabi di Edessa. Ricordiamo la scena: i figli dell’imperatore sono davanti alla tela e non vedono niente. Costantino invece (che dell’imperatore è soltanto il genero, ma poi ne diventerà il successore) vede l’immagine e ne resta profondamente turbato. Questo per la Frale significa due cose: primo, l’immagine si vede solo da lontano. Proprio come la Sindone. Secondo: è un’immagine incredibile, scandalosa per i bizantini del tempo, abituati a icone ieratiche e stilizzate. Il mandylion non è ieratico, non è stilizzato, è un’immagine di realismo insopportabile, pare dipinto col sangue e col sudore. Il mandylion è la sindone (per la Frale). Da qualche parte era stato pur scritto che il mandylion era “piegato in otto”: ecco spiegato perché veniva rappresentato solo come un piccolo panno col volto di Gesù; il resto del corpo restava nascosto sotto, difeso da quelle pieghe che col tempo lo avrebbero consumato. È una scena affascinante, ed è a quel fascino a mio parere che la Frale non ha saputo resistere. Il resto sono dettagli: le scritte greche con gli errori di grammatica, gli sgorbi che forse sono alfabeto ebraico ma si vedono così male che potrebbero essere rune di Tolkien, addirittura le tracce di monete sugli occhi (monete con scritte in latino!) e una traccia di terriccio sul naso – dunque il modello doveva essere caduto, sulla via del supplizio, almeno una volta. Tutte macchioline, che la Frale ha voluto leggere così perché ormai si era convinta che la Sindone è autentica: pareidolia. Uno storico deve diffidarne, ma a quel punto forse si troverebbe senza più piste da seguire, senza più storie da raccontare. Io che storico non sono, potrei contribuire semplicemente mostrando come le macchie possono assomigliare anche a tutt’altro. Per esempio…
…Torniamo al ritrovamento del Mandylion. Ricordiamo i dettagli. Nel 943 l’imperatore Romano I aveva mandato un suo plenipotenziario a trattare coi musulmani di Edessa, una città che se davvero aveva avuto il Mandalyon, ormai lo aveva perso da più di un secolo. Il plenipotenziario fa un’offerta davvero irrifiutabile: libertà per i prigionieri, immunità eterna, eccetera. I musulmani decidono che se il prezzo da pagare per un accordo del genere è un’immagine del Cristo, si può anche provare a farne una. Dev’essere però un falso credibile. Bisogna trovare un pittore. Ahi, non ce n’è. Siamo in terra d’Islam, l’iconoclastia ha vinto, i pittori non dipingono Dio e per sicurezza ormai non dipingono più nessuna figura umana, nessuna figura vivente, nessuna figura tout court. Solo figure geometriche e calligrafia. Ormai non c’è più nessuno che sappia mettere assieme due occhi e un naso sulla tela, e alle porte della città c’è un nemico che offre un sacco di soldi e la liberazione dei personaggi in cambio di una faccia su una tela. Se solo ci fosse un modo di fissare una faccia su una tela.
E se qualcuno avesse trovato il modo?
Abbiamo già visto che un primo Mandylion viene rifiutato dal plenipotenziario in quanto falso. Nell’occasione però il plenipotenziario ha avrà avuto la possibilità di chiarire alcuni dubbi sull’immagine, insomma di spiegare che immagine si aspettava di trovare a Edessa: dai, siete saraceni, veniamoci incontro, io devo riportare al mio boss un’immagine così e così, trovatemene una e siamo a posto. È una proposta ragionevole; salvo che a Edessa non c’è nessuno che la sa realizzare. Che si fa?
Va bene, si sarà detto qualche notabile di Edessa, se non sappiamo disegnare i volti, ci sarà pure qualche modo per ottenerli senza disegnare. Abbiamo tintori, abbiamo tessitori, abbiamo un sacco di artigiani: ingegniamoci. Qualcuno magari ricordava d’aver letto da qualche parte di un antico sistema per proiettare immagini su tela; qualcuno in sostanza potrebbe aver ricostruito la camera oscura, come l’aveva descritta secoli prima Aristotele e come l’avrebbe descritta cinquant’anni più tardi il grande scienziato egiziano Alhazen (Ibn al-Ḥasan). E qualche altro artigiano potrebbe anche aver trovato qualcosa in più, qualcosa che in Occidente ci abbiamo messo altri secoli a scoprire o forse non abbiamo nemmeno scoperto: un processo chimico, un reagente strano, insomma, qualcosa che lascia impronte di luce sulla tela. Fantastico.
Però a questo punto serve un modello. Che assomigli al Cristo, ma che ne sanno i musulmani di Edessa del cristo? È un profeta del Corano, morto malissimo, in seguito a una di quelle barbare torture occidentali. Sanguinava qui, qui, e qui. Hmmm. Ci vorrebbe un modello. Andate al suk a prendermi un mendicante che abbia libera una mezza giornata. Uno abbastanza giovane, con la barba e coi baffi e i capelli lunghi. Se non vanno di moda procurate parrucca e barba finta. Ah, eccolo qua. Dunque, dobbiamo immaginarcelo che sanguina. Come si sanguina quando ti fustigano e poi ti crocefiggono? Qualcuno ha un’idea? Le frustate anche anche, ma la crocefissione è proprio un mistero. E quei maledetti cristiani vorrebbero un ritratto dal vero, ma come si fa? (I cristiani in realtà non pretendono tutto questo realismo; non sono nemmeno pronti per accettarlo, ma i musulmani di Edessa non se ne rendono conto. Per loro qualsiasi disegno di un corpo umano è qualcosa di estremo: quando si trovano costretti a realizzarne uno, ottengono il più estremo di tutti).
Ma insomma stiamo parlando di una ricompensa di 12.000 corone d’oro, oltre alla libertà per duecento prigionieri di guerra. Non possono correre il rischio di sbagliare, così qualcuno prima o poi lo propone: crucifiggiamo il modello, vediamo come reagisce, dove si raggruma il sangue ecc. Il tizio magari non è entusiasta, ma lo confortano: non ti faremo male davvero, beh, magari un po’ sì, ma sarai adeguatamente ricompensato, inoltre diventerai famoso, presso quei cani idolatri. E poi magari quando si calma lo ammazzano davvero, non si può escludere, e la Sindone oltre a essere la prima foto dell’umanità sarebbe il primo snuff. Il trucco riesce: gli artigiani di Edessa riescono a produrre un sudario con la figura intera e sanguinante, avanti e dietro. Questa è roba forte, questo farà impazzire quei pagani adoratori del corpo e del sangue. Lo impacchettano, lo consegnano al plenipotenziario, e appena quello è partito a cavallo scoppiano a ridere e a tirarsi manate sulle spalle: c’è cascato, chi l’avrebbe detto. Il plenipotenziario in realtà ci crede fino a un certo punto, è anche lui uomo di mondo, ma magari intasca una percentuale, e in ogni caso è sempre meglio che tornare a Bisanzio a mani vuote.
A Bisanzio all’inizio non capiscono: si aspettavano il solito disegno stilizzato, la tipica macchia gialla triangolare, e invece ecco una macchia molto diversa; quasi invisibile, ma incredibilmente realistica. La ripiegano ben bene perché forse non ne sopportano la vista. Trecento anni dopo, Costantinopoli è saccheggiata dai crociati; i templari si impossessano della reliquia e magari la utilizzano davvero per le loro cerimonie di iniziazione. Dopo il processo e lo scioglimento dell’ordine (1315), qualcuno in Francia meridionale rimane in possesso della Sindone: qualcuno che non ha più remore a mostrarlo nella sua interezza e nella sua nudità. I catari ormai sono scomparsi, i templari disciolti o entrati in clandestinità, il dibattito sulla corporeità del Cristo non è più così cruciale. In Occidente tutti sono convinti che Gesù sia vero Dio e vero Uomo, lo imparano a catechismo da bambini e poi nella vita si preoccupano d’altro. La sindone è interessante, ma non più sconvolgente. L’autorità religiosa non appare ansiosa di avallarne il culto, anche perché più o meno dal 1350 è una proprietà dei Savoia, mentre a Roma hanno la loro Veronica da esporre. In teoria l’autenticità di una reliquia non esclude l’altra – non è come il teschio di San Giovanni, di cui uno per forza dev’essere autentico, e gli altri fasulli. Il conflitto tra la Sindone e le veroniche medioevali è più sottile ed è a ben vedere il discrimine tra Medioevo e Rinascimento, e il motivo per cui a un certo punto il Vaticano la sua Veronica ha preferito nasconderla, come qualcosa che non potrebbe funzionare più. Eppure per secoli ha funzionato. Per secoli è apparso assolutamente plausibile, che l’immagine miracolosa del volto di Gesù fosse una chiazza barbuta triangolare. In fondo era un’immagine perfettamente coerente coi codici pittorici del medioevo, e forse le persone si raffiguravano così, nella fantasia e nei sogni, proprio come i nostri genitori sognavano in bianco e nero perché la loro fantasia era plasmata da cinema e tv senza colori. A un certo punto però qualcosa cambia: i pittori introducono la prospettiva, i ritratti diventano più tridimensionali, la figura umana perde quel tasso di stilizzazione che ancora conservava nei più realisti dei pittori medievali; una nuova generazione di artisti e studiosi si concentra sull’anatomia. Tra Giotto e Masaccio non c’è nemmeno un secolo: la Sindone è da qualche parte lì in mezzo e non ci sarebbe bisogno di trovare tracce di sangue vero per considerarla un miracolo: anche se è un manufatto, è un manufatto senza precedenti, realizzato con una tecnica che non conosciamo e con il possibile impiego di una camera oscura, almeno una generazione prima che cominci a usarla Leonardo Da Vinci a fine ‘400 (e infatti c’è chi ha proposto che l’abbia realizzata lui, su una tela però già vecchia). Secondo Hans Belting “non ha avuto successo nella storia dell’immagine”: è rimasta un unicum e non ha ispirato altri pittori a uscire dalle regole della raffigurazione tardomedievale. Il fatto che proprio in quei decenni gli artisti si stessero emancipando da quelle regole sarebbe soltanto una coincidenza. Questo più o meno è il quadro che abbiamo davanti, e che dovremmo accettare come il più plausibile.
Oppure potremmo strabuzzare un po’ gli occhi e cedere alla tentazione delle macchie. Le macchie raccontano la storia che vorremmo sentirci raccontare, che nel mio caso magari è questa: il realismo occidentale nasce un po’ per caso in una città musulmana del decimo secolo, dove un gruppo di artigiani, costretti a produrre il ritratto di un cadavere senza avere nessuna competenza pittorica, inventa per caso un procedimento fotografico. Dopo averlo inventato lo dimentica subito, perché le raffigurazioni sono comunque devianze occidentali di cui diffidare. Quanto agli occidentali, per quattro secoli nemmeno si rendono conto nemmeno di cos’hanno per le mani, finché dopo essere passato di mano più volte, il primo negativo fotografico della Storia arriva a Torino e comincia a ispirare qualche pittore che passa di lì. È una storia che non si può dimostrare. Soltanto raccontare. Ecco fatto, spero che nessuno se la prenda.