Popcorn, vaccini e ghigliottine (un secolo di sconfitte abbracciate con ottimismo)
Sono abbastanza convinto che Renzi non abbia mai detto “Ora tocco a loro e pop-corn per tutti”, come pure ha virgolettato ieri la Stampa. Se poi davvero la frase gli è scappata, sarà successo in una conversazione privata che sarebbe scorretto strumentalizzare, come hanno fatto immediatamente i suoi avversari interni. D’altro canto è per vero che Maria Antonietta non ha mai detto “Che mangino brioches” alla folla che chiedeva il pane (ma l’aneddoto è geniale, una volta sentito non si riesce a dimenticarlo); San Lorenzo non ha mai detto “Voltami, son cotto” ai pagani che lo arrostivano; e Voltaire non avrebbe mai dato la vita per difendere le opinioni dei suoi avversari, poco ma sicuro. Sono tutte storie messe in giro, fake news, e se hanno resistito così tanto è per un motivo che dovrebbe preoccupare anche Renzi. Non sono vere, ma sono efficaci. I popcorn di Renzi in un qualche modo somigliano a quello che per Berlusconi fu “la culona inchiavabile”: una frase mai detta ma che sintetizzava così felicemente il personaggio a cui era attribuita che a un certo punto alcuni berlusconiani la rivendicavano con orgoglio.
Io non credo che Renzi abbia parlato di popcorn: neanche in privato. Sarebbe stato come ammettere che il suo rifiuto a ogni trattativa, orgogliosamente rivendicato dal quattro marzo in poi, più che una strategia assomiglia alla reazione puerile di un ragazzo escluso dai giochi, che si siede sugli spalti e spera che i contendenti rimasti si picchino a sangue. “Popcorn per tutti” contiene in sé tutto un mondo di sbruffoneria, introducendo anche l’idea di una piccola corte di amici che i popcorn dovrebbero prepararli e gustarli col capo. È a ben vedere una parodia dell’hashtag #ToccaALoro, e Renzi francamente non sembra così autoironico. Certo, se nei prossimi mesi succederà qualche disastro, è probabile che l’espressione gli sarà ritorta contro: hai voluto i popcorn? In realtà no, Renzi non li ha voluti: ma ha pur sempre lasciato intendere che i disastri erano inevitabili o che il suo Pd almeno non avrebbe mosso un dito per evitarli. Una nuova crisi dello spread, una catastrofe umanitaria nel mediterraneo, sono tutte eventualità non così implausibili con Salvini e Di Maio al governo, ma Renzi non sta dando l’impressione di preoccuparsene più di tanto. Nei piani, questo atteggiamento dovrebbe riconciliarlo con gli elettori, una volta che si stancheranno delle promesse non mantenute da M5S e Lega. Si fa un torto a definire questo scenario “strategia del popcorn”? Magari sì, però funzionerebbe: facile da ricordare, scoppiettante, un po’ irresponsabile e non troppo sano.
Nei prossimi mesi, se il governo Di Maio-Salvini va in porto, due partiti populisti che si presentavano alle elezioni come diretti concorrenti troveranno un terreno comune e occuperanno i palazzi del potere. Gestiranno le forze dell’ordine. Avranno la possibilità di influenzare l’opinione pubblica attraverso la Rai, che tende sempre a riposizionarsi secondo la maggioranza, mentre difficilmente il conflitto di interessi della Mediaset sarà ritoccato. Con o senza il “benevolo” Berlusconi, Lega e M5S avranno tempo e agio per modificare la legge elettorale a loro piacimento: in fondo lo fanno tutti i partiti che vincono le elezioni in Italia. Tutti questi rischi, una buona parte del Pd ha deciso di correrli; ha pensato che ne valesse la pena. Questa idea che l’avversario politico si combatta non ostacolando la sua ascesa al potere, da dove viene? Purtroppo non è un’innovazione dei renziani, anzi: è uno dei tratti che più li accosta alla tradizione della sinistra italiana.
La strategia del popcorn ha nobili precedenti. Il più immediato è il vaccino di Montanelli. Fu proprio il giornalista, ormai diventato un vate dell’antiberlusconismo, a sintetizzarlo in una delle ultime interviste che rilasciò a Repubblica. Era la primavera del 2001: Berlusconi si apprestava a vincere le elezioni per la seconda volta; polizia e carabinieri si stavano già preparando a quella spaventosa dimostrazione di forza che fu la repressione dei manifestanti al G8 di Genova. Dopo aver dichiarato che avrebbe votato per il centrosinistra, Montanelli confessò a Laura Laurenzi che in realtà sperava in una vittoria di Berlusconi, “faccio fioretti alla Madonna perché lui vinca, in modo che gli italiani vedano chi è questo signore. Berlusconi è una malattia che si cura soltanto con il vaccino, con una bella iniezione di Berlusconi a Palazzo Chigi, Berlusconi anche al Quirinale, Berlusconi dove vuole, Berlusconi al Vaticano. Soltanto dopo saremo immuni. L’immunità che si ottiene col vaccino”.
Berlusconi in effetti vinse, con un buon margine che gli consentì di governare praticamente indisturbato per cinque anni. I disastri non mancarono: il già citato G8, e poi una lunga battaglia sull’abolizione dell’articolo 18 che su concluse con una ritirata strategica (dieci anni dopo Renzi completò l’opera). Gli interventi in Afganistan e in Iraq. L’ennesima riforma della scuola che nascondeva i tagli più drastici. La finanza creativa di Tremonti. Perdemmo molto tempo prezioso in quei cinque anni in cui avremmo potuto modernizzarci e invece ci berlusconizzammo definitivamente. Ma almeno come vaccino funzionò? Non risulta. Dopo cinque anni Berlusconi si ripresentò nel 2006 contro l’Ulivo di Prodi ottenendo un sostanziale pareggio; e nel 2008 stravinse di nuovo. Eppure quando Montanelli nel 2001 aveva suggerito di inocularci un po’ di berlusconismo benigno, molti avevano trovato l’immagine felice e calzante. Gli inglesi lo chiamano wishful thinking, gli psicologi razionalizzazione: visto che Berlusconi appariva ormai inevitabile, ci siamo convinti che ci sarebbe servito, che si sarebbe rivelata un’esperienza formativa. Marx aggiungerebbe che la Storia si ripete sempre in farsa e che Montanelli, inconsciamente, non stava che “evocando con angoscia gli spiriti del [suo] passato per prenderli al servizio”: se alla sua generazione erano serviti vent’anni e una guerra mondiale per immunizzarsi dal fascismo, non era poi così peregrino pensare che qualche anno di Berlusconi al governo ci avrebbe guarito dal male.
Ma forse non è nemmeno vero che ci siamo immunizzati dal fascismo. Montanelli non poteva non conoscere la pagina più famosa di uno degli eroi più limpidi dell’antifascismo liberale, Piero Gobetti: l’Elogio della Ghigliottina, pubblicato pochi giorni dopo la Marcia su Roma. È uno di quei testi che raccontano così bene l’Italia da dare l’impressione (magari sbagliata) di essere attuali in qualsiasi momento li si vada a riprendere.
“Né Mussolini né Vittorio Emanuele hanno virtù di padroni“, scrive Gobetti, “ma gli Italiani hanno bene animo di schiavi. È doloroso dover pensare con nostalgia all’illuminismo libertario e alle congiure. Eppure, siamo sinceri fino in fondo, c’è chi ha atteso ansiosamente che venissero le persecuzioni personali perché dalle sofferenze rinascesse uno spirito, perché nel sacrificio dei suoi sacerdoti questo popolo riconoscesse se stesso. C’è stato in noi, nel nostro opporsi fermo, qualcosa di donchisciottesco. Ma ci si sentiva pure una disperata religiosità. Non possiamo illuderci di aver salvato la lotta politica: ne abbiamo custodito il simbolo e bisogna sperare (ahimè, con quanto scetticismo) che i tiranni siano tiranni, che la reazione sia reazione, che ci sia chi avrà il coraggio di levare la ghigliottina, che si mantengano le posizioni sino in fondo. Si può valorizzare il regime; si può cercare di ottenerne tutti i frutti: chiediamo le frustate perché qualcuno si svegli, chiediamo il boia perché si possa veder chiaro”.
Il giornalista e militante che chiede le frustate – e le otterrà, fino a morirne – ha appena ventun anni: non arriverà a compierne ventisei. Il fascismo al potere gli sarebbe sopravvissuto di altri quindici. Tra il suo Elogio e l’odierno dibattito sui popcorn c’è ormai un secolo, in cui la Storia ha avuto il tempo di ripetersi in forme sempre più farsesche. Però in un qualche modo inconscio e distorto sembriamo ancora vittime dello stesso pattern: Gobetti chiedeva che i tiranni fossero tiranni perché gli italiani si pentissero di averli lasciati marciare indisturbati fino ai palazzi del governo; Montanelli pregava che gli italiani votassero Berlusconi affinché capissero che votare Berlusconi era sbagliato; Renzi, se pure aveva un minimo margine per impedire che due partiti populisti diretti concorrenti trovassero un accordo, ha preferito andarsi a sedere sulla riva del fiume. Se dice che non si è portato un sacchetto di popcorn, è giusto credergli. Allo steso tempo, come si fa a non immaginarlo mentre sgranocchia.