L’ultima fermata per Dylan?
Tempest (2012)
(Il disco precedente: Christmas in the Heart).
Senti come fischia il vecchio Duquesne?
Fischia come per spazzarmi via.
Mi fermo un po’ a Carbondale, poi riparto,
il Duquesne mi riprenderà con sé.
Mi dai del giocatore, del ruffiano,
Ma non sono né l’uno né l’altro.
Senti come fischia il vecchio Duquesne?
Come fosse l’ultima partenza.
È stato un lungo viaggio. Anche per chi come noi lo ha fatto tutto in un anno solo, concentrato, una stazione alla settimana. Per più di un anno abbiamo accettato l’idea che un insieme arbitrario di canzoni incise sullo stesso supporto (“disco”) possano avere un senso, una qualità superiore (o inferiore, talvolta) alla somma delle parti. Alcune stazioni erano famosissime, altre in disuso; altre sconosciute, artificiali, monumentali, postume. Spesso abbiamo avuto la sensazione di ritornare indietro; talvolta ci siamo messi a fantasticare di ideali scorciatoie, o di stazioni immaginarie che avrebbero avuto più senso di quelle che invece esistono davvero (e che non hanno sempre senso). Tre o quattro volte siamo arrivati in una stazione che sembrava essere concepita come l’ultima – già Blonde on Blonde in qualche modo suggeriva questa sensazione. E poi i dischi con Lanois; alcuni confanetti; e tutti i dischi dal 2000 in poi: hanno tutti quell’aria di capolinea che non ci ha mai impedito di ripartire. Tempest, uscito nel 2012, allude all’ipotesi già dal titolo, che ogni buon ex studente anglofono collega, ancor prima che a un evento atmosferico, all’ultima opera di William Shakespeare. Quella però si chiama The Tempest, con l’articolo: fu Dylan stesso a ricordarlo ai giornalisti, almeno una volta. Segno che si era posto il problema; che non trovava poi così immodesto paragonarsi al più grande bardo inglese, dopo essersi paragonato più di una volta a Picasso – e proprio di Shakespeare avrebbe parlato nel primo biglietto di ringraziamento spedito all’Accademia di Svezia dopo l’annuncio del Nobel: uno Shakespeare impresario di sé stesso, che oltre a scrivere tot righe all’anno deve anche preoccuparsi di fundraising e oggetti di scena (“Dove posso procurarmi un cranio umano?”). Chissà se poi le cose andassero davvero così, se Dylan si sia realmente documentato sulle incombenze dei drammaturghi elisabettiani. Fatto sta che a un certo punto Dylan ha voluto chiamare una stazione “Tempest”; ha voluto che pensassimo che poteva essere l’ultima; quando gliel’hanno chiesto, ha negato; e in effetti ci sono state altre stazioni, ma ora che ci siamo lasciati parecchie miglia alle spalle ci rendiamo conto che forse è andata proprio così: Tempest era l’ultima.
Certo, il treno è andato avanti. E potremmo andare avanti anche noi, almeno per un po’. Ma in un certo senso Dylan è sceso. Il Dylan compositore, perlomeno: ovvero quello che ci interessa di più. Seguono altre tre stazioni di cover di lusso, una interminabile playlist di pezzi confidenziali che potrebbe essere quel tipo di musica che suonano nell’ascensore mentre uno va in paradiso, ecco, forse da Tempest in poi ci troveremo in un limbo del genere, e sai quanto ci divertiremo! Abbiamo tre stazioni per decidere se Dylan abbia preso più da Sinatra o più da Louis Armstrong o per caso niente da entrambi. Ma prima di tutto questo dobbiamo affrontare Tempest con la consapevolezza che è davvero, che ha proprio tutta l’aria di essere l’ultimo disco di inediti che Dylan ha voluto pubblicare. E com’è questo Ultimo Disco di Dylan, com’è? Beh:
Ha una della copertine più brutte mai autorizzate da Dylan (“Qualcuno è stato davvero pagato per questa cosa?” “Sembrano i primi passi su photoshop di uno studente del primo anno”). Ma dal punto di vista musicale, l’unico che c’interessi davvero, com’è?
È… straordinario (per un settantenne, almeno).
Senti come fischia il vecchio Duquesne?
Fischia come non ha fischiato mai.
Il blu lampeggia, il rosso avvampa
come sulla porta della mia camera.
E tu sorridi ancora dal cancello
come mi sorridevi un dì?
Senti come fischia il vecchio Duquesne:
come se non dovesse fischiare più.
La straordinaria opera di un settantenne. Temo che a questo punto del viaggio l’età del conducente non possa più essere considerata una curiosità. Per quanto ancora possano essere suggestive le stazioni, è il viaggio che sta diventando un’opera in sé; nessun treno dello stesso genere ha percorso un tratto così lungo e complicato. Forse non abbiamo neanche gli strumenti per descriverlo, il disco rock di un settantenne; ci mancano i punti di riferimento – persino i Rolling Stones (comunque partiti dopo) sono rimasti indietro, su una pista tutta loro che torna sempre alle stesse stazioni. La grandezza del Dylan di Tempest rischia di essere la grandezza di certi atleti che vanno alle olimpiadi senior per la quarta volta e finalmente vincono la medaglia perché i loro avversari storici nel frattempo sono morti. Allo stesso tempo, come si fa a ignorare che Dylan continui a suonare ottanta concerti all’anno all’età in cui voi vi immaginate davanti a un brodino caldo all’ospizio? Che stia ancora scrivendo canzoni mezzo secolo dopo aver pubblicato Blowin’ in the Wind?
Stavolta a soffiare è una vecchia locomotiva a vapore, la “Duquesne”, metafora semplice e immediata della vita e della morte. È un soffio che gli ricorda chi è stato e chi non potrà mai non essere; è un fischio che annuncia il destino, come quello di When the Ship Comes In; se è della morte che si sta parlando, non è questa gran novità: ne parlava più ossessivamente il Dylan del suo primo disco di 50 anni prima. La novità è magari il modo sornione con cui ne parla: Duquesne è il brano più allegro, più sereno del disco, l’unico vero swing (e l’unica collaborazione con Robert Hunter, a mio avviso la più riuscita). Dylan attraversa la canzone come un vecchio giocatore con qualche brutta avventura alle spalle e un pensiero fisso che gli fa compagnia come una vecchia amante. Il riff della chitarra è un capolavoro di sintesi tipico del suo ultimo stile chitarristico (lui nel frattempo nei concerti era passato alla tastiera, segno che forse le articolazioni gli danno qualche difficoltà). Due note; di nuovo due note ma con una velocità diversa; di nuovo il primo intervallo di due note; e infine un intervallo un po’ più esteso. Come la biella della locomotiva, che ha solo due direzioni e manda avanti un treno intero. Qui e in The Long and Narrow Way (che gira intorno a una versione semplificata del riff di Hoochie Coochie Man) il minimalismo chitarristico di Dylan potrebbe essere un modo per adeguare la musica ad articolazioni meno reattive: ma ricorda anche quel certo tipo di sbrigatività con cui affrontava i suoi cavalli di battaglia acustici già dopo qualche anno, accelerandoli e semplificandoli. Il vecchio Dylan contiene sempre il giovane Dylan.
Senti come fischia il vecchio Duquesne?
Come se facesse a pezzi il cielo.
Sei l’unica cosa viva che mi manda avanti,
sei una bomba a orologeria nel mio cuore.
Riesco a sentire una voce che mi chiama…
Dev’essere la madre di nostro Signore.
Senti come fischia il vecchio Duquesne?
Come se il mio amore fosse a bordo.
Poteva essere molto peggio, questo ultimo disco di Dylan. (Per esempio: poteva essere Together through Life). Come uscita di scena di un grande autore, è comunque notevole: contiene almeno due brani (Duquesne, Tin Angel) che salgono immediatamente nell’empireo delle trenta canzoni migliori di tutti i Dylan: il che non si può dire di dischi più robusti come Modern Times o Time Out of Mind. Allo stesso tempo contiene anche brani che possono lasciare perplessi (Long and Wasted Years, Tempest, Roll On John), come non succedeva ormai da parecchi anni; perché Dylan in Tempest si prende dei rischi che non si prendeva da tantissimo tempo, da quanto? Forse dal 1990 di Under the Red Sky. Ricordate che a un certo punto il viaggio si è fatto molto più tranquillo, senza più scossoni improvvisi, con tappe più lunghe e rifornimenti confortevoli, ma come dire, un po’ ripetitivi? Ecco, Tempest non è così e sarebbe il suo più grande pregio – se non contenesse Duquesne e Tin Angel, che sono pregi più grandi. Proprio quando ci aspettavamo l’Ennesimo Disco Alla Jack Frost, metà blues metà ballate confidenziali, il settantenne Dylan si rimette a pasticciare con altre cose; e i risultati non è che siano sempre limpidi, però…
Però a questo punto meglio così, davvero. Meglio cose torbide come Pay in Blood e persino filastrocche interminabili e inascoltabili come Tempest: meglio tutto questo all’ennesima collezione di rockabilly e blues, perdio, lo so che sono la quintessenza del folklore americano e una componente ineludibile della dylanità, ma sono su questo scompartimento da un anno e non so se sarei riuscito ad ascoltarne tre in più. In Tempest ce n’è il minimo sindacale (sul serio, probabilmente se non ne infila almeno un paio ad album Robert Johnson sale dall’inferno a complicargli i sogni): entrambe variazioni di Hoochie Coochie Man: la già citata Long and Narrow Way ed Early Roman Kings. Hoochie Coochie era un inno all’arroganza del maschio alpha; le nuove Hoochie Coochie di Dylan sono canzoni più trucide che arroganti, ma è un aspetto che condividono con quasi tutto il disco – è un disco che trabocca di sangue. Quel che più sorprende è che non sia sangue di Dylan. Lui stesso ce lo spiega per cinque lunghi minuti: “pagherò col sangue, ma non col mio”.
Il disco del sangue. Ecco, per esempio, questo è un dettaglio che non ci saremmo aspettati dall’ultimo disco di uno splendido settantenne: un immaginario truculento, a tratti davvero shakesperiano nel senso che a volte l’autore non è contento finché non muoiono tutti gli attori in scena, che se in Tin Angel sono i classici personaggi del triangolo (boss, moglie e amante), in Tempest sono tutti i passeggeri e l’equipaggio del Titanic, rievocato in sogno solo per rivederlo sprofondare al rallentatore. Di solito ci si aspetta un po’ di bontà dai nostri anziani; Dylan dice di non avere più contatti con la sua famiglia, e invecchiando sembra avere affinato il senso della crudeltà, come certi imperatori. Early Roman Kings potrebbe in certe strofe parlare davvero delle prime avventure imperialiste di quella banda di pastori arroganti che avevano la loro base sui Sette Colli, ma è più facilmente un blues ispirato a qualche genealogia di gangster italoamericani – se Joey sapeva insopportabilmente di Francis Ford Coppola, Early Roman Kings è puro, fin banale Scorsese. Altrove, Dylan sembra avercela con una donna. Ma non è più il pensiero fisso doloroso e languido di Time Out of Mind: adesso Dylan, se la trova, la fa secca. Lei e certi suoi amici. “Dovrei prenderti a pietrate per i torti che hai commesso”. “Pagherò col sangue, ma non col mio”. Il sangue può schizzare all’improvviso dovunque: persino in un brano apparentemente inoffensivo come Soon After Midnight, su un placido giro di doo-wop (t’immagini che da un momento all’altro risorgano le dylanettes per fare dei bei tutttuttu tuttuttu tuttuttu terzinati, e per l’ultima volta non ti scoccerebbe ascoltarle). Per qualche strofa Dylan sembra soltanto voler giocare con le rime più sciocche che gli vengono in mente: (“A girl named Honey / she took my money”), finché l’ennesimo accostamento non scatena una strage: “They chirp and chatter / why does it matter? / They’re lying there dying in their blood”). Così, senza alzare né la voce né la chitarra, probabilmente neanche il sopracciglio: qualcuno ha starnazzato un po’ troppo e adesso è lì a terra a sanguinare a morte. Tempest forse non è il disco più mortifero di Dylan: si moriva bene, ricorderete, anche nei lavori giovanili. Ma grazie al brano omonimo è probabilmente il disco con il bodycount più alto, e soprattutto è il disco in cui ci si ammazza di più. Non è chiaro il perché, e se abbia a che vedere col tempo che passa, ma ascoltando Tin Angel ci si lascia attraversare da un tremendo sospetto: che tutto questo sangue serva a mantenere il settantenne vivo e scalciante.
Tin Angel ha qualcosa di miracoloso. Usando un decimo dei trucchi di scena adoperati da Daniel Lanois, con una strumentazione essenziale, Dylan riesce a costruire un arrangiamento cupo ed evocativo e lo trasforma in un loop sonoro (potrebbe persino averlo campionato, tanto è ripetitivo). Sopra questo sottofondo ipnotico comincia a raccontare una storia di tradimento e morte che fa impallidire certe ballate di Nick Cave (Cave stesso potrebbe essere impallidito ascoltando Tin Angel). A ben vedere è la storia più banale mai raccontata in musica (soprano vuole scappare col tenore, ma il baritono non glielo permette): ma non ha così importanza, così come non ne ha il fatto che il triangolo si risolva nel più cruento dei modi, sangue e cervella per tutto il palco. Il punto è come Dylan lo racconta. Forse è l’unico momento del disco in cui ti dimentichi che ha 70 anni; potrebbe averne la metà. La voce, che anche stavolta nei primi pezzi sembra sempre lottare per uscirgli fuori, qui è scattante, duttile, precisa: ogni parola è pronunciata nell’unico modo in cui un attore dovrebbe pronunciarla. Parlano in tre, e non c’è mai un dubbio su chi stia parlando. Insomma tutto questo sangue sembra davvero aver fatto bene a Dylan.
Senti come fischia il vecchio Duquesne?
Come se mi soffiasse il blu dal cuore.
Bastardo, so esattamente dove stai andando,
ti ci porterò alla fine del giorno.
(Mi sveglio ogni mattina nel letto con quella donna,
mi dicono tutti che mi è andata alla testa).
Senti come fischia il vecchio Duquesne?
Come se dovesse farmi fuori.
Esperimenti. Tin Angel è il più riuscito di tre esperimenti che sarebbero sufficienti a rendere Tempest il disco più innovativo di Dylan dai tempi di Lanois. Anche Scarlet Town prende un giro di accordi e lo ripete senza interruzione per sette minuti – qui in più c’è il banjo, e un classico testo di Dylan su quant’era orrido ma anche affascinante il vecchio midwest minerario. Sarebbe una gran canzone, non fosse davvero un po’ lunga, al punto da nutrire il sospetto che il settantenne non abbia la stessa concezione del tempo che abbiamo noi. Forse per lui il tempo è una specie di serpente da incantare. È il sospetto che trova conferma nei dodici minuti di Tempest, uno dei brani-limite di Dylan (me ne vengono in mente almeno altri due: Last Thoughts on Woody Guthrie è il brano incantabile, Highlands è il brano interminabile). Tempest è, temo, quello inascoltabile. Pur essendo di qualche minuto più breve di Highlands, è molto più frastornante per le orecchie, e non solo per la fisarmonica (che qui ha un sapore più irlandese). Non per le dimensioni della strage, né per l’apparente banalità pop dei riferimenti al film di Cameron – in realtà il naufragio del Titanic è una sua antichissima ossessione, dai tempi in cui studiava da folksinger e andava in cerca di notizie d’epoca sui microfilm della NY Public Library; il che rende in qualche modo più commovente il fatto che ci abbia messo 50 anni a scrivere una canzone, e che gli sia uscito un sogno nutrito dalle scene di un film di appena 15 anni prima.
Ma il vero motivo per cui Tempest non si sopporta è l’ossessività della musica. Il metro è più o meno la Common measure, il distico giambico già tentato da Dylan nei brani più enigmatici di John Wesley Harding. Erano tutti brani onirici e brevi, con un’eccezione che è in assoluto il brano più simile a Tempest mai registrato da Dylan: The Ballad of Frankie Lee and Judas Priest. A distanza di 45 anni, lo stesso problema: per Dylan la Common Measure dev’essere suonata su una frase musicale breve, semplice, in maggiore. Qualcosa che alla lunga diventa irritante – ma se Frankie Lee poteva snervare come un incubo dal quale non ci si riesce a svegliare, Tempest è un’angoscia protratta per 45 strofe (non 45 versi come si legge in giro, bensì il quadruplo: 180 versi – un giorno forse i traduttori impareranno a tradurre “verse”). Come fai a cantare 45 strofe con la stessa identica musica, senza cambiarla di una virgola? Forse lo facevano gli aedi con l’Iliade – o forse persino loro variavano la sbobba un po’. Dylan non si pone minimamente il problema. Evoca una progressione vagamente irlandese, perfetta per l’ambito marinaresco (la Common Measure è la stessa adoperata da Coleridge per The Rime of the Ancient Mariner) e non la molla più, cascasse il mondo – il mondo non casca, ma il Titanic si inabissa, ovunque tragedia e morte, e sul ponte Dylan impassibile continua a suonare lo stesso motivetto folk, come un automa, un organo a rullo. È l’antitesi di Tin Angel: lì la musica ripetitiva forniva semplicemente un tappeto adeguato a un’esibizione teatrale piena di sorprese e spaventi. Qui Dylan non recita; è una specie di libro di testo che procede impassibile. Tempest è una di quelle rarissime canzoni che hanno più senso scritte che cantate: ma se l’avesse soltanto scritta e mai cantata, nessuno l’avrebbe notata (non l’ha però mai eseguita dal vivo, come tutti i brani più lunghi e sperimentali del disco: mentre quelli più semplici, in cinque anni li ha già eseguiti in concerto qualche centinaia di volte).
In fatto di riff in maggiore ripetitivi e un po’ stranianti, vale la pena di riascoltare anche Long and Wasted Years. Se ogni canzone di Tempest è il punto di arrivo di qualche canzone precedente. Long and Wasted Years potrebbe essere il finale di tante canzoni di disamore, da Don’t Think Twice a It’s All Over Now; però alla fine non riesco a non pensarla come il seguito di On a Night Like This. Di nuovo due vecchi amanti a letto assieme che cercano di non prendersi a gomitate. A un certo punto della notte Dylan sente il suo ex amore dire cose irriferibili. “Oh, baby, un giorno o l’altro finirai in prigione”. Lo stesso Dylan fa di tutto per accreditarsi come uno stronzo: dietro agli occhiali scuri che porta ci sono segreti inconfessabili. I suoi peggiori nemici sono crollati nella polvere: non li ha sconfitti lui, ha solo dovuto aspettare.
Roll On John. Se è il 2012, sono passati anche 32 anni da quando Lennon morì a New York, e Dylan non ne scrisse nulla (scrisse di getto una gran canzone per Lenny Bruce, ma sarà stata una coincidenza). Ma se Tempest è davvero l’ultima tappa del Dylan compositore, l’impegno non più essere deferito. È toccante che l’ultima canzone di Bob Dylan a essere stata incisa da Bob Dylan sia un omaggio a quel collega e amico. Se solo fosse anche una grande canzone. Per qualcuno lo è, ma d’altro canto ormai siamo sul predellino, il viaggio è stato così lungo che ormai sul treno ci sentivamo a casa, siamo in quel momento in cui ci si commuove con niente. (C’è chi giura di sentire nel riff iniziale anche un omaggio preciso a Generale di Francesco De Gregori, e in effetti le note sono proprio quelle lì).
Eppure è facile capire che Roll On John ha qualcosa che non va. Lo stesso difetto strutturale dei brani della seconda metà di Tempest: troppe strofe, addirittura un ritornello sempre uguale. Un citazionismo che Dylan maneggia senza leggerezza, indifferente alle accuse di plagio (quasi sempre pretestuose): per lui è sempre stato naturale costruire le canzoni intorno a versi strappati da altri autori, ma stavolta sembra voler fare qualcosa di più combinatorio, di più astratto: vorrebbe creare nuove canzoni di Lennon usando i versi di Lennon per dire qualcosa di diverso da quello che diceva il povero Lennon. Ma non gli vengono in mente nemmeno tantissimi versi, e verso la fine li mescola con quelli della Tigre di Blake (a me piace pensare che il vecchio Dylan si sia proprio confuso: che per un attimo si sia convinto che Lennon ha scritto anche la Tigre di Blake, perché no? Tiger, tiger, burning bright: non potrebbe essere un pezzo del White Album?) È un pastiche un po’ freddo – non è il modo in cui pensiamo che un settantenne dovrebbe ricordare un amico morto. Ma in fin dei conti, che ne sappiamo di come pensano i settantenni? E che ne sappiamo di Dylan? Solo perché abbiamo condiviso un piccolo viaggio in treno con lui, crediamo di capire cosa nasconda dietro gli occhiali?
Senti come fischia il vecchio Duquesne?
Fischia in mezzo a un’altra città farabutta.
Le luci del mio paese stanno brillando:
mi chiedo se la prossima volta mi riconosceranno.
Mi chiedo se la vecchia quercia è ancora in piedi,
quella su cui ci arrampicavamo…
Senti come fischia il vecchio Duquesne?
Fischia come se volesse spaccare il minuto.
Gli altri dischi di Bob Dylan: 1962: Bob Dylan, Live at the Gaslight 1962, 1963: The Freewheelin’ Bob Dylan, Brandeis University 1963, Live at Carnegie Hall 1963, 1964: The Times They Are A-Changin’, The Witmark Demos, Another Side of Bob Dylan, Concert at Philharmonic Hall, 1965: Bringing It All Back Home, No Direction Home, Highway 61 Revisited, 1966: The Cutting Edge 1965-1966, Blonde On Blonde, Live 1966 “The Royal Albert Hall Concert”, The Real Royal Albert Hall 1966 Concert, 1967: The Basement Tapes, John Wesley Harding, 1969: Nashville Skyline, 1970: Self Portrait, Dylan, New Morning, Another Self Portrait, 1971: Greatest Hits II, 1973: Pat Garrett and Billy the Kid, 1974: Planet Waves, Before the Flood, 1975: Blood on the Tracks, Desire, The Rolling Thunder Revue, 1976: Hard Rain, 1978: Street-Legal, At Budokan, 1979: Slow Train Coming, 1980: Saved, 1981: Shot of Love, 1983: Infidels, 1984: Real Live, 1985: Empire Burlesque, Biograph, 1986: Knocked Out Loaded, 1987: Down in the Groove, Dylan and the Dead, 1988: The Traveling Wilburys Vol. 1, 1989: Oh Mercy, 1990: Under the Red Sky, Traveling Wilburys Vol. 3, 1991: The Bootleg Series Vol 1-3 (Rare and Unreleased), 1992: Good As I Been to You, 1993: World Gone Wrong, 1994: MTV Unplugged, 1997: Time Out of Mind, 2001: “Love and Theft”, 2006: Modern Times, 2008: Tell Tale Signs, 2009: Together through Life, Christmas in the Heart, 2012: Tempest…