Il capolavoro involontario
Tell Tale Signs: Rare and Unreleased 1986-2006 (The Bootleg Series, Vol. 8)
(Il disco precedente: Modern Times.
Il disco successivo: Together through Life)
Io comunque su Pasolini ho una teoria: secondo me, mentre girava il Decameron lui…
“Ma che c’entra Pasolini adesso”.
Ma niente, mi viene sempre in mente sotto l’Immacolata, perché sai.
“Ti confondi col ponte dei morti”.
Ah già.
“Ma senti è un po’ che non passo a leggerti, li hai poi finiti i dischi di Dylan?”
No, effettivamente ne ho ancora un po’.
“Ancora? Ma quando hai cominciato? Sembrano anni”.
In effetti è esattamente un anno.
“Ma ne ha fatti così tanti?”
Più di una cinquantina, sì. E parecchi persino belli.
“Beh io a un certo punto ho smesso di leggerli, però…”
Non devi mica scusarti.
“…quando li raccoglierai in volume di sicuro io… perché pensi di raccoglierli in volume, vero?”
Eh, dipendesse da me.
“Ma hai mai scritto a un editore?”
Sì, e mi hanno anche risposto, ma…
“Cioè è chiaro che bisogna lavorarci un po’ su, togliere le cose che in un libro non funzionano, però…”
Ma alla fine non resta niente.
“In che senso”.
È come coi Santi. Uno dice: sto facendo una rubrica dei Santi che ha un suo seguito, insomma funziona, che ne dite? E loro all’inizio wow, in effetti è interessante, però… bisogna lavorarci.
“Ma ti fa così schifo lavorarci?”
Ma no io ci lavorerei anche, però… senti, non mi sto lamentando, ok? È un problema mio. Si vede che non funziono sulla carta.
“Ma cosa dici”.
Di solito va così: mi dicono, metti tutto in un pdf e mandacelo. E io: guardate che è tanta roba.
“Tagliane un po'”.
Ma certo che ne taglio.
“E alla fine ti restano…”
Quelle due, trecento cartelle.
“Così tanto?”
In un blog non sembra tanto, ma su carta è come se si gonfiasse. Poi ti dicono: bello eh, ma bisogna togliere tutti gli interventi in prima persona, i siparietti autobiografici… in un libro non hanno senso. E sai una cosa?
“Hanno ragione”.
Hanno assolutamente ragione, e allora io li tolgo. E tutte le battute stagionali, le trovate estemporanee, le cose che hanno senso soltanto nel giorno in cui le scrivi, tolgo tutto. E a quel punto…
“Non sono più interessati?”
Non sono più interessante.
“Però su Dylan…”
Ma certo, figurati se fuori non c’è la fila di gente che mi vuole pubblicare quattrocento cartelle su Dylan.
“Ma saranno meno, dai”.
Specie dopo aver tolto tutte le digressioni personali, le battutine, le cose da blog, tutto quello che lo renderebbe diverso dall’ennesimo libro su Dylan.
“E allora cosa farai?”
E allora cosa farò? Mi inventerò altre cose da scrivere e andrò avanti così.
“Ma non ci pensi che un giorno qui sparirà tutto?”
“Ci penso sempre, ma alla fine non è quasi mai successo”.
“Tra un po’ finisce la net neutrality e ciao“.
“Troverò un sistema”.
“Un server si pianterà e puf, non resterà nulla. Solo tanti link che puntano nel vuoto”.
Ogni tanto faccio un backup.
Got nothing for you, I had nothing before
Don’t even have anything for myself anymore
Sky full of fire, pain pourin’ down
Nothing you can sell me, I’ll see you around
Resto convinto che Pasolini, mentre girava il Decameron, se la deve esser vista brutta. Ma veniamo a Dylan, sennò pensate che io voglia cincischiare; che il disco di questa settimana non l’abbia neanche ascoltato, e in effetti parliamo di un disco triplo dal prezzo scandaloso (ma su Spotify ci sono solo i primi due, quelli che venivano venduti a una cifra ragionevole). Invece non solo l’ho ascoltato, ma lo riascolterei volentieri anche adesso, toh. Sono sinceramente convinto che sia uno dei dischi migliori di Bob Dylan – sì, tra i cinquanta e più dischi che ho ascoltato quest’anno, Tell Tale Signs sta nei primi quindici, forse anche tra i primi dieci. Credo addirittura che sia il disco migliore della sua ultima fase, ed è un’affermazione abbastanza forte, visto che Tell Tale Signs è perlopiù una collezione di scarti dalla lavorazione di Oh Mercy (1989), World Gone Wrong (1993), Time Out of Mind (1997), Modern Times (2006): com’è possibile che gli scarti siano migliori del prodotto? Con Dylan è possibile, anzi.
I was thinking of a series of dreams
Where nothing comes up to the top
Everything stays down where it’s wounded
And comes to a permanent stop
È quasi inevitabile. Avete sentito che l’ultimo Leonardo Da Vinci disponibile sul mercato è finito in Arabia Saudita? Secondo me era una sòla, però io non me ne intendo e anzi ho in materia idee molto estreme, ad esempio nutro qualche dubbio sulla Gioconda del Louvre: e se non fosse l’autentica? Perché non ha le sopracciglia e mancano due colonne che ci sono in alcune copie molto vecchia – ma è comunque una Gioconda fantastica, se dubito di lei figurati quanto posso fidarmi di un Salvatore col volto ieratico (ma asimmetrico!) con dei ricciolini da Botticelli, ritratto di fronte… cioè hai Da Vinci a disposizione e gli chiedi un ritratto di fronte? È come chiedere alla Ferrari se ti fanno un motorino 50 cc, dai, non esiste.
Leonardo è uno dei primi pittori che ci ha lasciato delle opere incompiute – prima non era neanche contemplato che l’artista non riuscisse a finire la sua opera, se Giotto per qualche motivo lasciava a metà un affresco di un convento probabilmente i frati reintonacavano e finiva lì. Leonardo invece certe cose proprio non riusciva a finirle. Prendi la Gioconda: forse ne ha dipinta più d’una – anche quella al Prado di Madrid è molto bella e inoltre ce n’è una che è più giovane. Forse anche quella del Louvre all’inizio era più giovane ma Leonardo, che se la portava sempre con sé (anche in Francia), progressivamente la invecchiava. Che è un po’ la cosa che fa Dylan con certi suoi cavalli di battaglia dal vivo; li ha inventati, li ha odiati e adesso ci sta invecchiando assieme. Dylan sarebbe contento se sapesse che qualcuno in un blog lo sta accostando a Leonardo Da Vinci, Dylan si sente pittore e più di una volta, per tentare di spiegare quello che stava facendo, ha tirato fuori Picasso o qualche altro accostamento immodesto. Tell Tale Signs non è un album nel senso musicale del termine, ma nel senso che ha il termine nell’arte figurativa: è un album di schizzi, bozzetti, progetti, e allora più che a Leonardo bisognerebbe paragonarlo a un architetto perché molto spesso i suoi bozzetti sono molto migliori degli edifici che riesce a consegnare – di solito l’ultimo giorno prima di pagare la penale, e c’è spesso qualche magagna. Come Pasolini mentre guardava i giornalieri del Decameron, e secondo me se n’era reso conto abbastanza presto che qualcosa non stava funzionando.
Broken bottles, broken plates,
Broken switches, broken gates,
Broken dishes, broken parts,
Streets are filled with broken hearts
Broken words never meant to be spoken,
Everything is broken.
Nell’ambiente musicale – e dell’arte, e della cultura – c’è un sistema molto semplice per diventare un idolo al di sopra di ogni obiezione: morire giovane. Staremmo ancora parlando di Jim Morrison, di Ian Curtis, di Jeff Buckley? Se non ti va c’è la via opposta: sopravvivere a tutto e a tutti. Ci vuole molto più tempo e per ora ce l’hanno fatta in pochissimi – Dylan forse è il primo. Se sopravvivi a tutto e a tutti, alla fine puoi raccontare che avevi ragione tu, e non ci sarà più nessuno in grado di smentirti. Tell Tale Signs a un primo ascolto sembra un limpido atto d’accusa al produttore che in teoria aveva rilanciato Bob Dylan alla fine dei terribili anni Ottanta, Daniel Lanois. Non è andata esattamente così, ci spiega Dylan: e di tutti i suoi revisionismi è il più credibile, perché è sostenuto dalle uniche prove che hanno un senso in questo dibattimento: le canzoni. I demo di Mississippi, di Dignity, di Born in Time, sono magnifici: e non è che la Most of the Time e la Series of Dreams prodotte da Lanois siano da sbattere via, anzi. Ma i demo suonano più freschi, più immediati: hanno già quel suono che Jack Frost / Bob Dylan riesce a ottenere in studio solo a partire da Love and Theft. Possibile che alla fine avesse avuto ragione lui per tutto il tempo?
La produzione di Lanois, che sembrava aver rimesso in sesto Dylan, ora ci fa la figura di un orpello inutile. Quello che credevamo di sapere non funziona più: dobbiamo come minimo rivedere quella versione, accreditata dallo stesso Dylan, secondo cui era arrivato alle sessioni di Oh Mercy senza avere nemmeno una musica pronta – ma Born in Time era già una canzone fatta e finita, senza il peso del bridge che si trova addosso in Under the Red Sky. E anche Most of the Time, scopriamo, era già una degna canzone prima che Lanois la scomponesse e ricomponesse in studio trasformandola in una di quelle ballate che gli U2 infilavano alla fine dei loro dischi nel periodo. Alla fine il revisionismo di Tell Tale Signs finisce per nuocere anche a Jack Frost: Dylan ha inserito un paio di Mississippi per dimostrare che il suo demo era migliore di quella lavorata da Lanois, più blueseggiante, “sexy sexy sexy” che sentiamo nel secondo disco. Ed è così: ma il demo è migliore anche della Mississippi che Frost pubblicò in Love and Theft. Come dire che non esiste una versione definitiva di Mississippi, anzi: meno definitiva è, meglio è.
Il fascino di molti brani di Tell Tale Signs – il fascino di Dylan in generale – dipende in gran parte da quel senso di incompletezza che i brani suggeriscono (anche se non sono affatto suonati male). Sono tutti pezzi apparentemente migliorabili, pezzi che ti chiedono uno sforzo di fantasia, che ti fanno pensare a quanto sarebbero belli se fossero stati registrati in un certo modo in cui però nessuno è mai riuscito a registrarli. Sono incompiuti, sono pittoreschi proprio per quel senso di non-finito che riescono a conservare. Ed eccoci davanti al solito paradosso: Dylan, che ha mandato fuori più di cinquanta dischi, è una frana a metterli assieme. Con tutto che negli ultimi anni è migliorato, ha finalmente trovato musicisti con cui riesce a spiegarsi, e forse nel frattempo la tecnologia in sede di missaggio gli ha semplificato di molto il lavoro – con tutto questo, non riusciamo mai a liberarci del tutto da un dubbio: forse Dylan non avrebbe mai dovuto imbracciare una chitarra elettrica. Forse avrebbe dovuto continuare a registrare soltanto demo da distribuire agli altri artisti, forse avrebbe dovuto continuare a pubblicare spartiti, come ai tempi di Blowin’ in the Wind. Forse la sua migliore All Along the Watchtower è davvero quella di Hendrix, la sua migliore Mr Tambourine è quella dei Byrds. Perché sbattersi tanto a creare prodotti compiuti, quando quello che ti viene meglio sono gli abbozzi, gli schizzi, i progetti?
Someone showed me a picture and I just laughed
Dignity never been photographed
I went into the red, went into the black
Into the valley of dry bone dreams
“Ma sul serio non ti piacerebbe farci un libro”.
Certo che mi piacerebbe. Pensa che ogni tanto me lo sogno.
“Te lo sogni?”
Sì e siccome nei sogni non c’è limite di budget, nessuno mi vieta di pensare a un libro serio… Non il solito parallelepipedo di carta incollata e scadente. Di solito penso a una di quelle vecchie copertine di cuoio, quelle coi titoli impressi a caratteri d’oro, il titolo austero ma evocativo TUTTI I DISCHI DI BOB DYLAN.
“Ma cosa…”
Parliamo di un volume formato enciclopedia, una di quelle cose che alla fine non leggi mai dall’inizio alla fine, e allo stesso tempo non smetti mai di leggerlo… ogni tanto lo riprendi dallo scaffale e lo sfogli un po’… con tante foto, anche a colori…”
“Foto? E coi diritti come fai?”
È solo un sogno. Non si pagano i diritti sui sogni.
Tell Tale Signs è una prova di forza: Dylan non è il solo artista ad aver cominciato a vuotare i suoi cassetti, ma di solito il materiale che interessa ai fans è quello degli anni ruggenti. Dylan a questo punto aveva già pubblicato qualcosa, soprattutto del periodo acustico; ma le prove di lavorazione di Highway 61 e Blonde On Blonde dovranno aspettare ancora sette anni – e quando arriveranno, si scoprirà che sono un po’ meno interessanti di Tell Tale Signs: ovvero, non aggiungono agli anni Sessanta di Dylan quello che Tell Tale Signs aggiunge ai suoi anni Zero. Tell Tale Signs nel 2008 si piazzò secondo nella top50 di Rolling Stones (dietro ai TV on the Radio: chi se li ricorda?) Anche nei negozi andò bene, malgrado le polemiche sul prezzo esorbitante del cofanetto triplo. Arrivava in scia dopo una coppia di dischi che paradossalmente ci avevano fatto cambiare idea sulle capacità di Dylan di realizzarli e produrli; eppure, malgrado Love and Theft e Modern Times siano sorprendenti, l’album degli schizzi in un qualche modo suona ancora meglio. È un oggetto meno costruito: là dove Love e Modern soffrono un po’ la rigidità della loro struttura, il loro monotono oscillare tra rockabilly e lenti, Tell Tale Signs è un cassetto pieno di roba accantonata alla rinfusa: forse tutti i dischi di Dylan dovrebbero somigliargli. Curiosamente, è del tutto assente quell’infarinatura di jazz che aveva ravvivato soprattutto Love and Theft. In compenso riusciamo a ritrovare il blues anche in quei brani in cui non l’avevamo riconosciuto a prima vista (Mississippi, Dignity). Ci accorgiamo all’improvviso che Ring Them Bells e Mississippi sono due facce di una stessa canzone (che non esiste). Ogni tanto inciampiamo in oggetti preziosi come Cross the Green Mountain, una ballata di otto minuti scritta per un filmaccio di propaganda vetero-sudista che per fortuna andò male al botteghino. Troviamo un blues di Robert Johnson, 32-20, che è in assoluto la cosa più cattiva che Dylan abbia mai cantato (molto più cattiva dell’originale): quando dice che sparerà alla sua ragazza se non si sbriga ad arrivare, tu gli credi. Non si capisce come Dylan abbia potuto scartarlo da World Gone Wrong, o forse era troppo misogina e cupa persino per quel disco. E finalmente abbiamo la possibilità di ascoltare qualche prestazione del Tour Infinito che Dylan continuava a portare in giro per il mondo. Poca roba, ma ovviamente merita: soprattutto la versione hard rock di High Water del 2003, registrata poco lontano dalle cascate del Niagara. Ti lascia senza fiato a pensare: ma questo è il miglior Dylan live di sempre. Se solo si decidesse a selezionare venti tracce così, chissà che disco ci salterebbe fuori. Chissà perché non ce lo vuole dare.
Comunque nulla mi leva dalla testa che a un certo punto, Pasolini se la dev’essere vista brutta: il Decamerone se lo sognava da anni, ma avete idea di che sforzo ci vuole per trasformare un sogno in un film? Trovare qualcuno che te lo paghi, attori credibili, costumi e attrezzature, la fotografia – giusto per scoprire che gli attori non riescono a dire le battute senza mettersi a ridere, e i microfoni non funzionano come dovrebbero, il montatore continua a sbagliare i raccordi per sembrare più artistico, eccetera. E non si può nemmeno buttar via tutto come se niente fosse – uno scrittore forse lo può fare, ma un regista ha un budget, ha dei produttori, degli investimenti, alla fine il film è davvero un figlio che comincia a muoversi su gambe tutte sue e non va mai nella direzione in cui tu l’avresti voluto. Non puoi nemmeno negargli il tuo cognome nei titoli. L’unica cosa che Pasolini poteva fare era lasciarsi inquadrare alla fine del film, mentre dice: Perché realizzare un’opera quando è così bello sognarla soltanto?
Tell Tale Signs: Rare and Unreleased 1986-2006 è il 54esimo disco di Dylan che recensisco. È migliore della maggior parte, forse perché non ci prova nemmeno, a sembrare un disco. Ma senz’altro inferiore a tutti i più grandi capolavori che Dylan non è mai riuscito a registrare.
(Gli altri pezzi: 1962: Bob Dylan, Live at the Gaslight 1962, 1963: The Freewheelin’ Bob Dylan, Brandeis University 1963, Live at Carnegie Hall 1963, 1964: The Times They Are A-Changin’, The Witmark Demos, Another Side of Bob Dylan, Concert at Philharmonic Hall, 1965: Bringing It All Back Home, No Direction Home, Highway 61 Revisited, 1966: The Cutting Edge 1965-1966, Blonde On Blonde, Live 1966 “The Royal Albert Hall Concert”, The Real Royal Albert Hall 1966 Concert, 1967: The Basement Tapes, John Wesley Harding, 1969: Nashville Skyline, 1970: Self Portrait, Dylan, New Morning, Another Self Portrait, 1971: Greatest Hits II, 1973: Pat Garrett and Billy the Kid, 1974: Planet Waves, Before the Flood, 1975: Blood on the Tracks, Desire, The Rolling Thunder Revue, 1976: Hard Rain, 1978: Street-Legal, At Budokan, 1979: Slow Train Coming, 1980: Saved, 1981: Shot of Love, 1983: Infidels, 1984: Real Live, 1985: Empire Burlesque, Biograph, 1986: Knocked Out Loaded, 1987: Down in the Groove, Dylan and the Dead, 1988: The Traveling Wilburys Vol. 1, 1989: Oh Mercy, 1990: Under the Red Sky, Traveling Wilburys Vol. 3, 1991: The Bootleg Series Vol 1-3 (Rare and Unreleased), 1992: Good As I Been to You, 1993: World Gone Wrong, 1994: MTV Unplugged, 1997: Time Out of Mind, 2001: “Love and Theft”, 2006: Modern Times, 2008: Tell Tale Signs, 2009: Together through Life…)