Nella tavernetta degli specchi

The Traveling Wilburys, Vol. 1 (1988)

(Il disco precedente: Dylan and the Dead.
Il prossimo è Oh Mercy, oh, finalmente).

Ma Orbison andava al di là di tutti i generi, folk, country, rock and roll o qualunque altra cosa. Mescolava tutti gli stili, compresi quelli che non erano ancora stati inventati. In un verso cantava veramente da cattivo, in quello dopo se ne usciva con un falsetto alla Frankie Valli. Con Roy non si sapeva mai se stavi ascoltando del mariachi o un’opera lirica. Teneva sulle spine. La sua era un’offerta di grasso e di sangue. Sembrava che cantasse dalla cima del monte Olimpo ed era meglio starlo a sentire perché diceva sul serio. […] Adesso cantava con un’estensione di tre o quattro ottave, roba da farti spingere la macchina giù per la scarpata e non pensarci più. Cantava come un professionista del crimine. 

La storia è nota, ma si racconta lo stesso volentieri. Nella primavera del 1988, George Harrison è improvvisamente tornato alla ribalta. Il suo nuovo disco, Cloud Nine, prodotto da Jeff Lynne (chi?), è andato al numero uno negli USA, soprattutto grazie alla cover di Got My Mind Set On You, un pezzo che cura la nostalgia per i Beatles mediante robuste iniezioni di cose persino precedenti ai Beatles. Nel primo videoclip, Harrison e Lynne suonano tra gli ingranaggi di un videojukebox a manovella: i loro anni Cinquanta ormai sono un’idea depurata di ogni nostalgia, un giocattolo per bambini che non sanno chi è Elvis ma a quel ritmo muoveranno i piedi comunque. Numero 1 negli USA. La Warner è entusiasta e vuole estrarre un altro 12 pollici, ma serve un riempitivo per il lato B. Harrison è in California e sa che anche Lynne è nei paraggi, così lo chiama: dobbiamo incidere un pezzo al volo, tu adesso cosa stai facendo? Lynne ormai è tutto preso dal rock’n’roll, sta producendo il nuovo disco di Roy Orbison, eccentrica leggenda vivente anche se non vende un disco da anni. Roy Orbison! Wow! invita anche lui. Potremmo registrare a Malibu da Bob Dylan, lui ha quello studio in garage che di sicuro non sta usando nessuno. Il problema è che non ho chitarre con me, l’ho lasciata a casa di Tom Petty l’altra sera, beh, ma invito pure lui. Due giorni dopo i Traveling Wilburys sono appena nati e hanno appena registrato il loro più grande successo, Handle With Care, che oggi è una curiosità ma lanciò il 33 giri oltre i tre dischi di platino. Dylan tre dischi di platino non li vedeva dal 1971.

You can sit around and wait for the phone to ring (End of the Line)
Waiting for someone to tell you everything (End of the Line)
Sit around and wonder what tomorrow will bring (End of the Line)
Maybe a diamond ring?

Questo però lo avremmo scoperto in seguito. All’inizio c’era soltanto un video, in cui George Harrison intonava una di quelle canzoni alla George Harrison: semplici, meditate, disarmanti. La stessa vena serena e irresistibile di Here Comes the Sun, While My Guitar, Sweet Lord. Va avanti per otto versi, e se tutta la canzone fosse soltanto la ripetizione di quegli otto versi, avrebbe già un suo senso. Ma subito dopo entra Roy Orbison, che nel 1988 senz’altro non conoscevo. Il video mi forniva degli indizi: un profugo dagli anni Cinquanta, un sosia di Elvis sopravvissuto al suo personaggio? Gli basta aprire la bocca per trasformare una melodia tardobeatlesiana in qualcosa di completamente diverso, ha una voce cromata come una Triumph, si sente nell’aria un vago sentore di giacca di pelle, hamburger e frullato alla fragola. Sono passati trenta secondi ed è già una canzone molto strana, un patchwork come ne incidevano i Beatles verso la fine, giusto vent’anni prima – ma ecco che entrano Dylan e Petty, insieme. Petty segue la sua guida, il suo mentore, e Dylan… cosa vuoi che faccia Dylan? Dylan stecca.

Everybody’s
got somebody
to leeeeeeeeeeeean on

Unghie sulla lavagna, la specialità della casa. Sono tra amici, si divertono, che può fare Dylan in queste situazioni se non trovare l’unica nota dissonante? Petty invece no: lo segue eppure non stecca, come fa? Anni di allenamento, probabilmente.

All’inizio pensavo di non farlo, un pezzo sui Wilburys. In fondo fu un’avventura estemporanea, una festicciola protratta per dieci giorni (ma quanti buoni dischi Dylan li ha registrati anche in meno tempo?) Magari avrei aggiunto da qualche parte un postcriptum: ah, nel 1988 ha anche inciso qualche canzone tra amici e ci ha guadagnato più che in cinque anni di dischi e concerti. Poi mi sono ricordato che c’era un sacco di cose da raccontare. Di certi album non sai veramente cosa dire, ma non è il caso di quelli dei Traveling Wilburys. Sono dischi interessanti. Avanzi di canzoni montati assieme in fretta, per la gioia del musicologo dilettante. Handle With Care è l’esempio migliore: gran parte del divertimento consiste nella facilità in cui puoi scomporre il prodotto in fattori primi. Qui c’è l’eccipiente Beatles, qui c’è la base rockabilly, qui c’è la guarnizione: Dylan che stecca. È come smontare un lego. È facile. Ma ti fa sentire un ingegnere.

Di solito cominciava su un registro basso, appena udibile. Per un po’ ci rimaneva, poi cominciava con i suoi stupefacenti istrionismi. La sua voce avrebbe dato la scossa a un cadavere. Si finiva con il mormorare a se stessi: “Non ci posso credere”. Le sue erano canzoni dentro canzoni. Passavano dalla tonalità maggiore alla minore senza nessuna logica. Orbison era terribilmente serio, non c’era niente di adolescenziale in quello che faceva. Alla radio non c’era nessuno come lui. Io ascoltavo e aspettavo un’altra canzone, ma a paragone di Roy il resto dei programmi veniva dritto dalle terre della noia, roba flaccida, senza spina dorsale, fatta per chi non aveva un cervello. 

Tra i tributi più sorprendenti che Dylan offre in Chronicles, c’è senz’altro quello a Roy Orbison. Sul serio, chi l’avrebbe detto che il giovane Dylan lo apprezzasse così tanto? Non potrebbe essere uno di quei ricordi che si aggiustano a posteriori? Apparentemente in Orbison c’era tutto quello che Dylan non aveva e non aveva mai dato l’impressione di voler cercare: tanto per cominciare la voce impostata ed estesa su quattro ottave. Un’attitudine melodrammatica che negli anni Cinquanta aveva contagiato i rockers, ma proprio il successo di Beatles (e di Dylan) avrebbe estromesso dalle classifiche. E una vena barocca nella costruzione delle canzoni, piccole sinfonie in cui strofe e ritornelli si intrecciavano in strutture molto più complesse del necessario. Tutto questo aveva reso Orbison un personaggio unico ai suoi tempi, ma anche un ingrediente ideale per il metodo di lavoro dei Wilburys: improvvisare dei riff e montarli assieme. Si potrebbe dire dei brani più collettivi dei Willburys quel che Dylan dice delle canzoni di Orbison: canzoni dentro canzoni, dalla tonalità maggiore alla minore senza nessuna logica – oppure una logica c’è, come in Handle With Care, ma Dylan non la capisce e la smonta senza neanche accorgersene (Dylan, ricordiamo, è il compositore che incise sei dischi prima di scoprire il middle-eight, e che in John Wesley Harding aveva abolito i ritornelli). Malgrado l’ammirazione (reciproca?), Dylan e Orbison non duettano mai. Sembrano veramente inconciliabili, l’acqua e l’olio. Nei brani in cui canta Orbison, Dylan quasi scompare. Nel brano più dylaniano del mazzo, Tweeter and the Monkey Man, Orbison scompare davvero, abbastanza misteriosamente (magari era in bagno mentre registravano, va’ a sapere). Sono loro i due veri monumenti da maneggiare con cura: Harrison – che ha venduto più di entrambi messi insieme – è più duttile, la sua voce è iconica, ma non è un fossile vivente. Quella di Orbison lo era, e anche quella di Dylan, nel 1988, sembrava a un passo dal diventarlo.

Ama il tuo corpo sexy, la tua mente sporcacciona.
Ama quando lo stringi e lo afferri dal didietro.
Uuuuuh, baby, che bella cosa sei!
Voglio proprio presentarti a questa gang di amici miei…

Traveling Wilburys Vol. 1 è una serata con gli amici. Ci sono canzoni che hanno un senso soltanto mentre le canti in coro e dev’essere un coro maschile – un pezzo autocommiserante come Congratulations, se Dylan l’avesse inciso in Down in the Groove o Knock Out Loaded, magari con moglie e suocera in sottofondo, non si sarebbe potuto sopportare. Ma qui siamo al banco del bar, Dylan può lagnarsi quanto vuole, i fratelli W ascoltano, cantano il ritornello e versano da bere. Se invece è in vena di scherzare, finalmente ha dei compari che lo capiscono – se è vero che Dirty World nacque da una sua idea di “fare una cosa alla Prince”. Ovviamente non saltò fuori una canzone di Prince, ma quelle poche strofe sguaiate sono assolutamente dylaniane: la disinvoltura inspiegabile con cui passa dalla terza alla prima persona singolare, e quella litote (“non c’è assolutamente niente di te che non gli piaccia”) che è proprio il modo con cui si esprime con sé stesso – molti anni dopo, a un giornalista che gli chiedeva di Alicia Keys, avrebbe usato le stesse parole.

Maybe somewhere down the road aways (end of the line)
You’ll think of me, wonder where I am these days (end of the line)
Maybe somewhere down the road when somebody plays (end of the line)
Purple haze?

“Wilburys” deriverebbe da un’espressione molto usata da Harrison e Lynne durante le sessioni: We’ll bury it in the mix, “questo lo seppelliremo nel missaggio”.

La tavernetta dei Wilburys è un labirinto di specchi. Sembrano davvero tutti fratelli, come raccontano – magari di madri diverse, ma in qualche strano modo si assomigliano più di quanto dovrebbero assomigliarsi i vecchi amici. C’è una lingua comune – un rock and roll ancestrale che era poi l’unica lingua che ormai Dylan riuscisse a parlare in Down in the Groove. Ci sono fazioni consolidate e imprevedibili alleanze trasversali. Da una parte il ramo inglese, il vecchio saggio George e il fratellino Lynne, cresciuto alla sua ombra: le intuizioni del maggiore le ha trasformate in trucchi di laboratorio. Dall’altra il ramo americano: il vecchio e bizzoso Bob, padrone di casa (però gli ospiti sono arrivati in una settimana in cui era di buon umore, scherzava con tutti e lasciava che gli smontassero le canzoni). Il fratellino Tom gli assomiglia, nella voce e nella fisionomia. Ma è cresciuto in anni diversi e forse ci si è ambientato meglio: a questo punto della storia vende più dischi del maggiore e ha una voce più sicura. Però si porta ancora in tour il fratellone, ormai è un portafortuna. Tra inglesi e americani ondeggia Roy, la scheggia impazzita. Non si sa bene da dove viene e soprattutto dov’è stato per tutti gli anni da Oh, Pretty Woman (1964) in poi. Davo per scontato che ci fossero state brutte storie di alcool o peggio – in fondo un tizio che perde la moglie in un incidente in moto, e mentre è in tour all’estero viene informato che la sua casa è bruciata con due figli dentro, avrebbe avuto qualche motivo per lasciarsi andare. Ma semplicemente non è successo, Roy Orbison non si è mai ritirato dalle scene. Erano le scene che gli si erano progressivamente ritirate sotto i piedi: dai palazzetti ai teatri di provincia alle sagre di paese. Eppure non aveva mai smesso di cantare e incidere. A un certo punto aveva dovuto registrare da capo i suoi vecchi successi perché l’etichetta che possedeva i master era in bancarotta e minacciava di distruggerli. Ogni tanto qualche superstar riscopriva una sua canzone e il conto in banca ne traeva un subitaneo giovamento – qualche anno prima i Van Halen avevano rifatto Pretty Woman, caccia via. E nel 1980 aveva fatto un tour trionfale in Bulgaria. Ma dal cono d’ombra c’era uscito grazie al cinema: David Lynch aveva abbinato In Dreams, senza il suo permesso, allo psicopatico interpretato da Dennis Hopper in Velluto Blu – come trovare una lametta in un hamburger. Era un modo un po’ macabro di tornare alla ribalta, ma bisognava sfruttarlo, magari trovando un produttore che lo svecchiasse un po’. Jeff Lynne? Beh, se aveva funzionato con George Harrison…

Well it’s all right, even if you’re old and gray
Well it’s all right, you still got something to say
Well it’s all right, remember to live and let live
Well it’s all right, the best you can do is forgive


I Wilburys, ripetiamo, sono Bob Dylan (Lucky Wilbury), George Harrison (Nelson Wilbury), Roy Orbison (Lefty Wilbury), Tom Petty (Charlie T. Wilbury) e Jeff Lynne (Otis). I primi due li conoscono tutti; Orbison è quello di Pretty Woman; di Tom Petty qualche canzone in radio passa ancora, ma Jeff Lynne insomma chi è? Non vale googlare. È il tizio con barba e baffi che probabilmente la prima volta che vidi Handle scambiai per Dave Stewart degli Eurythmics, senza sbagliare poi di molto – è proprio negli studi di Stewart che il grosso del disco fu realizzato. Jeff Lynne può sembrare l’elemento meno indispensabile dei Wilburys, e invece è il collante. La melassa che protegge la frutta candita. Jeff Lynne era stato il leader dell’Electric Light Orchestra, un gruppo che negli anni Settanta sembrava dieci anni avanti , e che a metà anni Ottanta improvvisamente si ritrovò dieci anni indietro. Lynne era cresciuto coi Beatles e aveva cercato di incarnarne lo spirito più giocoso e sperimentale lungo tutti i Settanta – integrando tutto quello che nel frattempo si stava scoprendo in sala d’incisione: basi preregistrate ai concerti, sintetizzatori, violini sintetici e discomusic. Per Lynne lavorare con Harrison doveva essere stato come per Petty suonare con Dylan (e per Dylan e Harrison suonare con Orbison?): misurarsi professionalmente con l’eroe dei suoi sedici anni. Tra gli altri stilemi di Cloud Nine che tornano in Traveling Wilburys Vol. 1, c’è qualche intrusione di un sitar (probabilmente sintetico). Vent’anni prima Harrison aveva usato il sitar per corrodere l’egemonia occidentale del rock; per guardare altrove; per trovare una pace interiore sotto i lustrini di Sgt Pepper. Vent’anni dopo, Lynne lo usa come un trucco di scena: è una specie di sigla che sta a significare: “arriva George Harrison”, come la Marcia funebre per una marionetta di Gounod serviva a preparare i telespettatori all’arrivo di Alfred Hitchcock. Tutto quello che i Beatles hanno scoperto, per caso o per noia o per genio, all’altezza di Lynne è già un oggetto in serie, un giocattolo di seconda mano. Tutto sommato Lynne non era quel produttore moderno che Orbison (e Dylan) stavano cercando: te ne rendi conto mentre smonti TW vol. 1 – le tastiere, soprattutto. Il synth che fa capolino ogni tanto, per esempio tra un verso e l’altro del ritornello di Tweeter, ha un suono irrimediabilmente vecchio, un arnese anni ’70 che da un momento all’altro potrebbe suonarti Popcorn o qualche pezzo dei Pink Floyd ma più volentieri gli Alan Parson Project. Lynne non dovrebbe insomma avere nulla in comune con Roy Orbison – e invece condividono proprio quel gusto barocco per le sinfonie di tre minuti e quattro movimenti che Dylan invidiava – anche se saggiamente non aveva mai voluto imitare. E quando si arriva a Dylan, Lynne ha un paio di trovate che ti fanno pensare che gli anni Ottanta sarebbero potuti andare molto, molto diversamente, se lo avesse incontrato prima di imbattersi in Arthur Baker e le sue (CAZZO DI) batterie elettroniche.

Il caso più eclatante è Tweeter and the Monkey Man: non solo la canzone più riuscita del disco, ma forse la cosa che si ascolta più volentieri di Dylan dai tempi di Jokerman; com’è possibile? Che dopo aver penato per anni per partorire Brownsville Girl, Dylan riesca a buttar giù un pezzo del genere in una mezza giornata? Miracoli del cameratismo: quella dimensione che forse aveva cercato durante la Rolling Thunder Revue, e che ancora inseguiva quando chiedeva ai Grateful Dead di prenderlo con loro. Dylan è sempre stato un tizio solitario, e con gli anni la cosa è peggiorata. Nessuno può dargli un consiglio, nessuno riesce a capire se quel che sta facendo funziona o no. Nessuno lo controlla e tra il 1986 e il 1988 lui stesso non sembra riuscire a controllare quel che fa e quel che incide. Ma quella settimana si ritrova nel suo studio Roy Orbison! George Harrison! Forse i pochi mortali con cui può sentirsi realmente alla pari. Può rilassarsi e addirittura giocherellare: dopo aver fatto una canzone alla Prince, facciamone una alla Springsteen. Tweeter prende forma come una specie di rap ispirato da vecchi titoli springsteeniani, la storia comunque confusa di due spacciatori di crack (di cui uno forse transessuale, il solito reduce dal Vietnam) braccati da un poliziotto che ne fa un caso personale. Un mucchio di parole a cui solo l’interpretazione di Dylan può dare un senso: ma questo è un disco dei Wilburys, ci vogliono almeno i cori. E Lynne che fa? Prende due versi a metà canzone e li trasforma in un ritornello etereo, 100% Electric Light Orchestra – con quegli effettacci da fiera, timpani e synth – qualcosa che non ti aspetteresti mai in una canzone di Dylan ma che in effetti, chi se lo aspetterebbe, tra una strofa e l’altra di una canzone di Dylan ci può anche star bene. I Traveling Wilburys sono come quei panini gourmet con accostamenti improbabili che però, alla fine, ordini sempre almeno una seconda volta (una terza volta magari no) (adesso che ci penso, non credo di aver ascoltato questo disco tre volte).

Nella tavernetta, tra uno scherzo e una bevuta, ci si può anche commuovere. Magari non subito: quando ci ripensi. C’è Tom Petty che firma una delle canzoni migliori e tiene per sé soltanto una coppia di versi: “She wrote a long letter on a short piece of paper”. Ci sono frasi buttate lì per riempire uno spazio, che a riascoltarle diventano messaggi dall’altro mondo. Sono così stanco di essere solo, cantava Roy in aprile, ho ancora un po’ di amore da offrire. Era ancora aprile. In giugno era tornato una superstar: tour in Europa, un altro singolo in classifica, stava dimagrendo per esigenze di scena, a Johnny Cash disse che sentiva qualche dolore al petto ma ci avrebbe pensato poi. In dicembre non c’era più.

Well it’s all right, riding around in the breeze
Well it’s all right, if you live the life you please
Well it’s all right, even if the sun don’t shine
Well it’s all right, we’re going to the end of the line.

(Gli altri pezzi: 1962: Bob Dylan, Live at the Gaslight 19621963: The Freewheelin’ Bob DylanBrandeis University 1963Live at Carnegie Hall 19631964: The Times They Are A-Changin’The Witmark Demos, Another Side of Bob DylanConcert at Philharmonic Hall1965: Bringing It All Back HomeNo Direction HomeHighway 61 Revisited1966: The Cutting Edge 1965-1966Blonde On BlondeLive 1966 “The Royal Albert Hall Concert”, The Real Royal Albert Hall 1966 Concert1967: The Basement TapesJohn Wesley Harding1969: Nashville Skyline1970: Self PortraitDylanNew MorningAnother Self Portrait1971: Greatest Hits II1973: Pat Garrett and Billy the Kid1974: Planet WavesBefore the Flood, 1975: Blood on the TracksDesireThe Rolling Thunder Revue1976Hard Rain1978: Street-LegalAt Budokan1979Slow Train Coming1980Saved1981Shot of Love1983Infidels1984Real Live1985Empire BurlesqueBiograph1986Knocked Out Loaded1987Down in the Groove, Dylan and the Dead, 1988: The Traveling Wilburys Vol. 1…, 1989: Oh Mercy).

 

Leonardo Tondelli

Da Modena. Nel 1984 entra alla scuola media, non ne è più uscito. Da 15 anni scrive su uno dei più verbosi blog italiani, leonardo.blogspot.com. Ha scritto sull'Unità e su altri siti. Sul Post scrive di Dylan e di altri santi del calendario.