Dylan contro Gozzilla
Bob Dylan at Budokan (1979, ma registrato dal vivo nel 1978 al Budokan di Tokio)
(Il disco precedente: Street-Legal
Il disco successivo arriva lento, ma arriva).
Adagiato sul fondale di un oceano di rimpianto, il Mostro che un Tempo Era Stato Bob Dylan forse avrebbe voluto soltanto riposare per sempre. Dormire, sognare, eh magari. Cosa lo svegliò? Quale attorcigliamento del destino? Un’ondata anomala, una radiazione nociva, un flop al botteghino, un divorzio faticoso, un telegramma con un’offerta che non si poteva proprio rifiutare? Sia come sia, nell’alba del 1978 Bob Dylan si riscosse dal suo torpore e si innalzò sull’orizzonte dell’oceano, in cerca di cibo. Non era più un bardo vagabondo, né la voce della sua generazione. La mutazione era avvenuta: Bob Dylan era diventato un dinosauro. E Tokio lo aspettava.
Tokio va matto per queste cose.
Il Budokan è il palazzetto olimpico, costruito per i giochi del 1964. Un anno dopo entrava nella storia accogliendo i Beatles. Da allora ha ospitato migliaia di artisti occidentali. Senza mai venire meno alla sua vocazione di palestra delle arti marziali, è uno dei luoghi al mondo in cui sono stati registrati più dischi dal vivo. Dev’essere una combinazione di fattori: buona acustica, un pubblico sempre entusiasta ma che non applaude o fischia al momento sbagliato, una questione di prestigio: il Budokan non è immenso, ma riempirlo è il segno che sei un grande – almeno in Giappone. Nel momento in cui la Columbia decise di stampare una versione americana di At Budokan (all’inizio era prevista la commercializzazione soltanto in Asia e Oceania, ma ovviamente le copie abusive non si fecero attendere), sugli scaffali dei negozi potevi trovare un live budokaniano di Eric Clapton, due live di due ex Deep Purple (Ritchie Blackmore coi Rainbow e Ian Gillan, entrambi tornati sul luogo del delitto) e soprattutto il più famoso disco dei Cheap Trick, che prima di quel live non avevano mai avuto un disco nella top40, ma a Tokio erano stati acclamati come “i Beatles americani”. I Cheap Trick sono il classico esempio di gruppo americano Grande in Giappone: un’espressione proverbiale sulle due sponde del Pacifico. Quando hai tutto quel che ti serve per sfondare, e infatti sfondi, ma non a casa tua: dall’altra parte del mondo. Per gli statunitensi dev’essere particolarmente strano: trionfare in periferia mentre al centro dell’Impero non sanno chi sei. Non era certo il problema di Dylan.
I got the style but not the grace
I got the clothes but not the face
I got the bread but not the butter
I got the winda but not the shutter
But I’m big in Japan (Tom Waits, Big in Japan, 1999).
Dylan è sempre stato grande soprattutto nei Paesi anglofoni. Quando arrivò al Budokan, nel febbraio del ’78, non faceva un concerto all’estero da dieci anni. Era l’inizio del World Tour: 114 concerti in Giappone, Australia, Europa, USA. Di giri del mondo Dylan ne aveva già fatto almeno uno, e tanti altri ne farà, ma quello del ’78 è il World Tour per eccellenza: quello in cui Dylan convinse più all’estero che in patria (dove comunque fece il maggior numero di date). Per la stampa americana era il terzo tour in cinque anni: e rispetto all’“energia” dei concerti con la Band, e alla spontaneità della Rolling Thunder Revue era più difficile mandar giù questo nuovo Dylan in tutina bianca, coi suoi turnisti e gli ottoni. Uno strano Dylan post-Elvis (ma anche pseudo-Springsteen), un Dylan con una scaletta rigorosamente imbottita di grandi successi imposti dagli organizzatori, rivisti con arrangiamenti professionali, un po’ impersonali, de-dylanizzati: niente più momenti acustici. In compenso qualche reggae, uno spruzzo di salsa, un filo di funky, qualche pezzo da crociera. Un Dylan, per farla breve, da esportazione.
Un prodotto da turisti. Un Dylan a corto di liquidità (il divorzio e il film si erano rivelati due pozzi senza fondo), che prova a rivendersi ai mercati esteri ma non è affatto sicuro di cosa gli indigeni si aspettino da lui – e allora prova a nascondersi dietro la sagoma di un divo-tipo del rock americano anni Settanta: vi piacerà il sassofono? La E Street Band usa il sassofono, ce lo metto anch’io. E il reggae? La chitarra in levare di Don’t Think Twice può risultare sconcertante, ma va calata nel contesto di quella manciata di anni in cui tutti dovevano avere almeno un pezzo reggae nel repertorio.
Da Bowie agli Smiths, la chitarra in levare sembrava l’unica cosa che mettesse d’accordo dinosauri e punk; l’equivalente dell’autotune di oggi, o dei campionamenti negli anni Novanta, o della rucola sulla pizza degli anni Ottanta: qualcosa che fino al giorno prima era esotico e qualche giorno dopo avrebbe stancato chiunque. Anche Dylan ci avrebbe regalato almeno un reggae memorabile, prima di accantonare il genere. Ma al Budokan aveva più di un buon motivo: doveva cucinare per l’ennesima volta Knockin’ on Heaven’s Door. Che il brano potesse funzionare anche con una cadenza reggae lo aveva dimostrato, anni prima, Eric Clapton: magari Dylan non era sicuro di cosa piacesse ai giapponesi, ma aveva capito che amavano Clapton, che al Budokan aveva appena trionfato. E quindi reggae, perché no? La stessa All I Really Want to Do sembra più simile alla cover di Cher che alla sua. Quanto a All Along the Watchtower, dal vivo è sempre stata più hendrixiana che dylaniana – è come se At Budokan fosse un album di tributo a sé stesso: Dylan che interpreta i più grandi interpreti di Dylan. Oggi un concetto del genere potrebbe persino funzionare – nel pieno della rivoluzione post’77, sembrava un suicidio artistico (stavo per scrivere seppuku ma ho resistito) (non è vero, alla fine l’ho scritto).
Quando uscì in Occidente, At Budokan fu vittima di un vero e proprio accerchiamento. Per alcuni critici era sciatto, per altri troppo rifinito. Qualcuno riuscì a dire entrambe le cose. Era il peggior disco live di Dylan (era anche il terzo in cinque anni) – anzi no, era il peggior disco di Dylan. Qualche critico scrisse che era il peggior disco nella storia del rock, perché no? C’è sempre un peggior disco della storia del rock da qualche parte (il solo Dylan potrebbe averne pubblicati cinque o sei). L’immagine di un Dylansauro che infierisce su Tokio con una collezione di vecchi successi aggiornati al gusto dei tempi era troppo ghiotta per gli operatori di un settore dove se non fai il cinico non ti legge nessuno. Di lì a poco Dylan avrebbe avuto la sua crisi religiosa, accreditando ulteriormente l’impressione che il World Tour fosse stato un passo falso – e se i live in generale soffrono il tempo più dei dischi di studio, questo è vero in modo particolare per At Budokan, un live che cercava con affanno di cavalcare tendenze musicali che Punk e New Wave stavano già dichiarando obsolete.
(A proposito di dinosauri occidentali che cercavano un rilancio:
due anni prima Muhammad Ali si era fatto massacrare gli stinchi dal wrestler Antonio Inoki).
Il risultato di tutto questo è che nel giro di pochi anni At Budokan divenne uno dei dischi meno ascoltati del suo catalogo, una curiosità per appassionati (come forse Dylan aveva previsto che fosse). Insomma io non lo avevo mai ascoltato, At Budokan, ok? Per quale motivo al mondo avrei dovuto farlo? Tutti ne parlavano male, nessuno ne aveva in casa una copia da prestare, ed era un disco doppio! Costava una follia, non conteneva un solo inedito e rappresentava una tipica fase calante della sua carriera. E anche quando la discografia intera approdò su Spotify, At Budokan restava un oggetto ben poco invitante. Il primo brano in cui incappai era quello iniziale, forse la più bolsa Mr Tambourine Man mai realizzata, con Steve Douglas al… piffero!
Qui entriamo nel terreno delle idiosincrasie: io odio il piffero. Quando non è il flauto traverso di Ian Anderson; quando non viene usato per assoli prog, ma si limita ad accompagnare la melodia, lo trovo insopportabile. Se va per i fatti suoi è una distrazione; se segue il cantato è inutile: in ogni caso ottiene il risultato di precipitarmi a un concerto dei Modena City Ramblers. Se poi il pezzo è Mr Tambourine Man, la situazione è ancora più ridondante: è come se Dylan cercasse di spiegare ai giapponesi il senso della canzone. Un turista americano che gesticola: il tambourine man è il pifferaio di Hammelin, capite? Lo stesso Dylan mi sembrava cantasse con scarsissima convinzione: se da una parte dovrei rallegrarmi perché finalmente ha capito come chiedere al mixer di alzargli il microfono, dall’altra mi fa capire quanto è difficile dover cantare con la voce di Dylan: o strepiti, o non sei convincente; e non puoi strepitare tutto il tempo.
Shelter from the Storm è se possibile ancora più desolante: Dylan decide di appoggiarsi alle coriste, col risultato di annullare non solo il sentimento della canzone, ma la stessa melodia: è uno dei suoi primi tentativi di rileggere una canzone su una nota sola – un omaggio al minimalismo nipponico? (Anche in Like a Rolling Stone, senza un apparente motivo, semplifica la scala ascendente delle strofe riducendola a un solo gradino, un solo intervallo di quarta: Do-Fa, Do-Fa, un Dylan per bambini: se ne sarebbero ricordati gli U2 ai tempi di Angel of Harlem).
Insomma non è che inizi nel migliore dei modi, At Budokan. Ma se uno ha la pazienza di aspettare che gli si scaldi la voce, diciamo a partire da Love Minus Zero può anche trovare delle sorprese piacevoli. Certo, bisogna amare il genere – ma che genere è? Dunque. Diciamo che al netto di qualche ingrediente esotico (One More Cup of Coffee, con un pianoforte salseggiante, si avvicina pericolosamente alla disco-latina dei Santa Esmeralda) il vero cuore di Budokan è dove non te l’aspetteresti: nel rhythm and blues. Nei momenti migliori il fracasso della Bob Dylan Band ricorda certe cavalcate di Ike e Tina Turner; la Maggie’s Farm budokaniana, che a mio modesto parere è assai più convincente di quella che apre Hard Rain, si sostiene su un riff alla Sly Stone. Oh Sister viene anche lei ridotta a un accordo solo, ma il risultato è uno dei momenti più interessanti del concerto, vagamente funky. Magari il proposito iniziale era davvero quello di svecchiarsi, ma il risultato finale è una curiosa immersione in una black music senza tempo che preannuncia la fase più afroamericana della sua carriera.
Ballad of a Thin Man è la dimostrazione che Dylan comunque non stava facendo mosse a caso, ma aveva un’idea in testa: il trio vocale sostiene la canzone, lui è libero di svirgolare, il sassofono ci dà dentro come se fosse un intera sezione di fiati e poi si libera a un assolo finalmente gustoso (come non se ne sentono, purtroppo, in Street-Legal). È un’idea senz’altro magniloquente, barocca, ma anche nel senso migliore del termine: così come l’architettura barocca si preoccupa di suscitare un’emozione nel fedele, così Dylan per la prima volta nella sua carriera sembra porsi il problema del concerto dal punto di vista opposto al suo, quello del pubblico. È preoccupato che possa divertirsi, anche se non capisce tutte le parole. Non è più un divo scostante che scende sulla terra e dispensa il suo numero a mortali che non lo meritano. C’è un Dylan insolitamente umile sotto gli sfarzi orchestrali. Vuole farsi sentire, e se il modo più semplice è suonar forte, non si tira indietro.
I momenti migliori di At Budokan mi sembrano proprio quelli più fracassoni: su tutti, It’s Alright Ma, che arriva un’ora dopo Mr Tambourine Man ma sembra tutto un altro concerto, tutto un altro Dylan: teatrale, espressivo, a suo agio nel ruolo di grande interprete moderno di sé stesso. Non è che tutto vada sempre per il verso giusto (I Shall Be Released perde tutta la sua limpida semplicità), ma è quando rallenta che cominciano i problemi: Steve Douglas appoggia il sax e riprende il piffero, e Blowin’ in the Wind e The Time They Are A-Changin’ si trasformano in due numeri da pianobar: non è difficile immaginare quali brani Dylan fu obbligato a inserire in scaletta dai promoter giapponesi. Però alla fine la Blowin’ non è peggio di quella di Before the Flood, anzi: è più raccolta, più umile, sembra che Dylan abbia ormai imparato a ridurre i danni, ad affidarsi ai suoi musicisti, a seguire il loro tempo, al punto da darci la Just Like a Woman in un certo senso più fedele all’originale (il che la rende paradossalmente una delle meno interessanti). In Forever Young Dylan sembra ormai il nonno che a Natale ti fa il discorso prima di allungarti la busta – non bastavano i cori e i fiati, no, qualcuno ha tirato fuori il mandolino. Maaaaaay You Stay Forever Young! Ok, nonno, va bene, ci vediamo alla prossima.
Eppure dopo qualche ascolto finisci per riconciliarti anche coi brani più lenti, che in un concerto di due ore hanno un senso: certo, Simple Twist of Fate sembra mandata avanti col pilota automatico, e di tutte le ballate che poteva usare per prendere fiato, la versione frenata di I Want You è una scelta inspiegabile; ma il peggio è sempre lei, la progressione Pachelbel più sgonfia mai realizzata, Is Your Love in Vain: e pensare che i giapponesi l’ascoltarono in anteprima. Era l’unico inedito del concerto, e più di ogni altro suggeriva l’idea di un Dylan dinosauro, con un grande passato alle spalle e il respiro corto. Il destino, per fortuna, aveva in serbo ancora tanti altri attorcigliamenti.
(Gli altri pezzi: 1962: Bob Dylan, Live at the Gaslight 1962, 1963: The Freewheelin’ Bob Dylan, Brandeis University 1963, Live at Carnegie Hall 1963, 1964: The Times They Are A-Changin’, The Witmark Demos, Another Side of Bob Dylan, Concert at Philharmonic Hall, 1965: Bringing It All Back Home, No Direction Home, Highway 61 Revisited, 1966: The Cutting Edge 1965-1966, Blonde On Blonde, Live 1966 “The Royal Albert Hall Concert”, The Real Royal Albert Hall 1966 Concert, 1967: The Basement Tapes, John Wesley Harding, 1969: Nashville Skyline, 1970: Self Portrait, Dylan, New Morning, Another Self Portrait, 1971: Greatest Hits II, 1973: Pat Garrett and Billy the Kid, 1974: Planet Waves, Before the Flood, 1975: Blood on the Tracks, Desire, The Rolling Thunder Revue, 1976: Hard Rain, 1978: Street-Legal, At Budokan, 1979: Slow Train Coming).