Bob è grande, Bob è il boss
Street-Legal (1978)
Sedici anni,
sedici stendardi allineati sul campo
ove il buon pastore si strugge…
Nel 1978 Dylan festeggiava i 16 anni di carriera (un ragazzino, direbbe oggi Vasco Rossi) in cui aveva inciso 18 album di studio. Tanti. Troppi. Gli unici due anni in cui la premiata ditta Dylan non aveva fatto uscire niente erano, curiosamente, il 1968 e il 1977: ovvero i due anni più importanti in tutto l’Occidente per la storia della musica e del costume. È solo un caso – in fondo ciò che chiamiamo “anno” non è che un insieme arbitrario di mesi: nel 1968 John Wesley Harding era uscito appena da una settimana.
E però che coincidenza irresistibile: fino al 1966 Dylan era all’avanguardia; con JWH comincia a remare ostinato in direzione contraria. Di solito si sottolinea l’abbandono della politica, ma si trattò anche e soprattutto di un isolamento creativo. Gran parte degli anni Settanta trascorrono in una bolla dove Dylan non è che se ne resti fermo, anzi: ogni disco ha un suono diverso, ma con ben pochi agganci a quanto stava succedendo nel resto del mondo (se non sapessimo quando furono registrati non riusciremmo a datare dischi come New Morning, o Blood on the Tracks). E per quanto i critici più benevoli abbiano cercato di leggere nella furia auto-iconoclasta di Hard Rain un’anticipazione del punk, il 1977 sembra davvero il taglio finale: da qui in poi la musica andrà per una strada e Dylan per la sua. A prova di questo, di solito si esibisce Street-Legal – non che esistano molti altri motivi di esibirlo: un disco barocco nell’Anno Due del Punk, un disco per big band ai tempi dei Clash, un disco col sassofono! e le coriste! insomma un disco da dinosauro. Caso chiuso?
“Signori”, disse, “non ho bisogno della vostra organizzazione.
Ho lustrato le vostre scarpe, ho smosso le vostre montagne e segnato le vostre carte.
Ma il paradiso è in fiamme: o vi preparate ad essere eliminati
o i vostri cuori dovranno reggere il cambio della guardia”.
No. Lo chiudiamo se accettiamo pigramente l’idea che il 1977 sia soltanto l’anno del Grande Incendio di Londra, di Never Mind the Bollocks e Damned Damned Damned. Ma è anche l’anno di Exodus, un piccolo passo per Bob Marley che si è trasferito nel Regno Unito, un passo enorme per l’Europa in cui la penetrazione del reggae sta per determinare una rivoluzione copernicana nei ritmi e negli arrangiamenti. È l’anno in cui le classifiche americane non lo sanno e si lasciano placidamente dominare dai Fleetwood Mac di Rumours, un disco di ballate e sentimenti – quello che Dylan intendeva realizzare con Street-Legal. È inoltre l’anno di Saturday Night Fever: la disco è dappertutto e i coretti vanno alla grande: è così strano che Dylan li introduca così massicciamente in Street-Legal?
È persino l’anno in cui in un piccolo studio di registrazione dell’Oxfordshire, un ex dylanoide della provincia scozzese, tal Gerry Rafferty, alle prese col suo disco d’esordio, decide di sostituire un ritornello che non prende forma con un riff di chitarra: ma il solista è già andato a casa. In compenso il sassofonista dice che può provarci lui col contralto, ne ha uno nel baule della macchina. La canzone era Baker Street e il contralto non era nemmeno ben accordato, ma non ebbe importanza – o sì? Il pezzo andò al numero 1 negli UK e in USA; altrettanto fece l’album, ma questo era solo l’inizio: nel giro di qualche mese i negozi di strumenti musicali esaurirono la scorta di sassofoni. Il 1977 fu anche questo: il riff fuori chiave di Baker Street non è la tromba che annuncia l’Apocalisse, ma qualcosa di forse peggiore: gli anni Ottanta. E l’anno dopo, Dylan decise di usare il sax per Street-Legal. Era un’idea così stramba, dopotutto?
Non si trattava piuttosto di un tentativo, per quanto maldestro, di rimettersi al passo coi tempi – qualsiasi cosa i tempi stessero preparando? Sul margine di un decennio in esilio, Street-Legal è uno dei dischi di Dylan che più risentono di quello che gli stava succedendo intorno, almeno a livello musicale. Contiene persino un singolo, Baby Stop Crying, che è il più smaccato tentativo dylaniano di Canzone Pop dai tempi di Nashville Skyline. Anche True Love Tends to Forget sembra pronta per partire in crociera ed essere inserita nella scaletta dell’orchestra. We Better Talk This Over è un plagio sicuramente inconsapevole di Days dei Kinks, che stavano anche loro riscoprendo il grande pubblico degli stadi. Invece il riff di Changing of the Guards, se il sassofonista fosse stato in vacanza e Dylan avesse deciso di farlo suonare a un chitarrista hard rock, sarebbe diventato lo stacco centrale di My Sharona, che i Knack avrebbero portato in classifica solo l’anno successivo. Provateci voi: alzate il volume a 11, fingete di avere una folta chioma bionda, e spennate gioiosamente Sol Sol, Re Re, Do Do! Rerere Sol Sol, Re Re, Do Do! Se volete chiedervi da dove Vasco ha preso gli accordi di Siamo Solo Noi e Colpa d’Alfredo… no, non credo li abbia presi da Changing of the Guards. Sono solo tre accordi (è più facile che avesse in mente Sharona, o Baba O’ Riley). Ma insomma, anche quei tre accordi semplici, maggiori, positivi, sono il suono degli Ottanta che si avvicinano. E allora perché Street-Legal è invecchiato così male? Peggio di Siamo solo noi?
Pace verrà,
con tranquillità e splendore su ruote di fuoco
ma non porterà ricompense
quando i suoi falsi idoli cadranno
e una morte crudele si arrenderà
con il suo fantasma pallido che batte in ritirata
tra il re e la regina di spade.
In un pomeriggio d’estate di quello stesso 1977 la nuova fidanzata di Elvis Presley lo trova esanime sul pavimento del bagno. Non risponde, non respira. Nel suo organismo troveranno tracce di quattordici sostanze diverse, quasi tutte generosamente prescritte dal suo medico. La notizia della sua morte sconvolgerà milioni di persone, tra cui un suo vecchio fan del Minnesota, anche lui leggenda del rock, che per una settimana non avrebbe rivolto la parola a nessuno. Di lì a poco Dylan avrebbe messo a contratto il promoter che aveva organizzato il tour più fortunato di Presley, Jerry Wintraub; nella sua band avrebbe rimpiazzato il fido Rob Stoner col bassista di Elvis, Jerry Scheff; avrebbe imposto ai suoi musicisti candidi e attillati costumi di scena, una rottura completa con l’estetica stracciona della Rolling Thunder: ma anche un evidente omaggio alla fase calante della carriera di Elvis. Dylan lo aveva ammirato, tra le altre cose, per la sua capacità di rialzarsi dopo una caduta (se abbiamo capito bene Went to See the Gipsy). La fine ingloriosa del 1977 metteva in crisi anche quest’ultima leggenda. La prima reazione di Dylan è il rifiuto: non è vero, Elvis non può morire. Raccogliendo la sua fiaccola, Dylan fece quello che persino Elvis non era riuscito a fare: la portò fuori dagli USA, persino più in là delle Hawaii, oltre il grande mare, fino in Giappone e poi in Europa; e a Londra, dove non suonava dal terribile 1966 e dove in un locale incrociò Sid Vicious che prima di essere spintonato altrove riuscì a chiedergli: “Ma sei Bob Dildo?”
Dylan era senz’altro più simile a un dinosauro che a un punk. Dylan ora era il boss di una grande band in giro per il mondo. Tutti i musicisti e le cantanti, li aveva provinati, li aveva scritturati, ogni tanto li licenziava e rimpiazzava. Nei programmi dei concerti però alla voce Dylan non c’era “boss”, ma “cantante”. Dylan si sentiva soprattutto questo, nel 1978: un performer. L’ingranaggio centrale di una macchina ben oliata. Tutte le sere lo stesso repertorio, senza mattane. Dopo le follie del Rolling Thunder, ora Dylan cercava rifugio nel professionismo. Avrebbe fatto un disco presentabile, professionale, adulto: un disco street-legal (a 16 anni in gran parte degli USA puoi prendere la patente e uscire da solo). “Taking Care of Business”, avrebbe detto Elvis. Eppure Elvis era morto circondato da un entourage che non riusciva a fargli smettere di ingollare medicine e patatine, e anche Dylan era pur sempre Dylan: dopo la prima sessione di Street-Legal licenziò in tronco tutti i musicisti. Li riassunse il giorno dopo. Street-Legal secondo alcuni suonerebbe meglio, se Dylan non avesse di nuovo fatto eliminare tutte le tramezze dello studio (come a Nashville ai tempi di Blonde on Blonde) e registrato le nuove canzoni in fretta, praticamente live, senza darsi troppa pena di aspettare la versione migliore. Il solito autosabotaggio. Qualche anno fa il produttore Don DeVito lo rimasterizzò, ma niente da fare: anche se diventa più limpido, rimane sempre Street-Legal.
Señor, Señor, perché non stacchiamo tutti i cavi
e rovesciamo quei tavoli?
Questo posto per me non ha più senso.
Mi dici cosa stiamo aspettando, Señor?
Alcuni dischi, lo sappiamo, Dylan li ha fatti brutti apposta: sono esercizi di bruttezza. Altri gli sono usciti così per sbaglio; per mancanza di idee o di direzione, di parole, di musica. Street-Legal non è brutto così. Quando lo compose, Dylan aveva un sacco di parole (più manieriste e lambiccate del solito), aveva melodie in abbondanza. Aveva addirittura delle idee sugli arrangiamenti. E si era fatto una big band esattamente come la voleva lui. Stavolta insomma Dylan un’idea ce l’aveva. E però… era l’idea sbagliata.
Non è tanto il sax in sé – che c’è di male in un sax dopotutto? Non sarebbe stata la prima volta che uno strumento particolare diventa l’ingrediente dominante di un suo disco: l’organo di Kooper in Blonde on Blonde, il violino della Rivera in Desire (ma anche il basso di Stoner in Blood on the Tracks). Ma Steve Douglas non era un organista improvvisato come Kooper, non era un violinista di strada come la Rivera. Era un onestissimo turnista dall’invidiabile esperienza – aveva suonato per Elvis, anche lui; e per i Beach Boys; e di sicuro non si sarebbe fatto trovare con lo strumento scordato, come Raphael Ravenscroft quando incise in tutta fretta Baker Street (lui stesso ha più volte dichiarato che non riusciva a riascoltarla dal fastidio). Ma forse un Ravenscroft scordato era quello di cui Dylan avrebbe avuto bisogno in un pezzo come No Time to Think, costruito su un riff cantilenante sulla quale la voce di Dylan traballa allegra giocando con la metrica come non faceva da anni (se solo non durasse 8 infiniti minuti…)
The bridge that you travel on / goes to the Babylon
girl with the rose in her hair.
Starlight in the East / and you’re finally released
You’re stranded but with nothing to share.
(Loyalty, unity, epitome, rigidity).
You turn around for one real
last glimpse of Camille
‘Neath the moon shinin’ bloody and pink
And there’s no time to think.
Ci voleva un violino sguaiato, o un organo libero di svirgolare a piacere. Invece Douglas è educato, professionale, e pochi strumenti riescono a essere odiosi come il sax quando lo suoni in modo professionale. La differenza tra Ornette Coleman e Fausto Papetti può essere impalpabile ma in un qualche modo la senti, ed è quella che ti fa precipitare in pochi secondi in un nightclub di provincia o in un locale di liscio. La Bob Dylan Band del 1977-78 è stato il momento di maggior convergenza tra Dylan e l’Orchestra Italiana Casadei.
Ho combattuto il mio gemello, il nemico dentro di me,
finché non siamo entrambi caduti a terra.
Truffe e malattie mi stanno uccidendo
Mentre la legge guarda dalla parte opposta.
I tuoi soci nel crimine mi picchiano per due spiccioli,
il ragazzo che amavi non poteva proprio restare pulito.
Sembrava un po’ strano, il mio piede nella sua faccia,
ma avrebbe dovuto restare al suo posto.
Non importa che i testi siano ispirati e visionari. Non li ascolti più, i testi. Un altro problema di Street-Legal è che Dylan ha un sacco di cose da dire, ma a chi? Di sicuro non a te. Riferimenti ai tarocchi, donne misteriose, sentimenti complicati: è più facile che tutte queste cose le stia spiegando a sé stesso, e alla fine ti chiami fuori. Dopo un disco di meravigliosi racconti come Desire, Dylan sceglie di ritornare all’intimismo di Blood on the Tracks, senza accorgersi che nel frattempo è cambiato qualcosa di fondamentale: non siamo più suoi intimi. Lo avevamo seguito quando parlava di uguaglianza e profetizzava l’apocalisse; con qualche fatica eravamo riusciti a seguirlo anche quando si era messo a parlare delle gioie coniugali; con un certo cinico sollievo avevamo appreso della crisi del suo matrimonio, e con qualche senso di colpa lo avevamo seguito lungo il burrone fino al divorzio; ma ora? Ora è un single milionario sotto la quarantina; che altro può fare a parte reinnamorarsi? Ma quanto può essere credibile, il milionario innamorato fresco di divorzio? Per rispondersi basta riascoltare Is Your Love In Vain?, il brano più involontariamente ridicolo di tutta la discografia dylaniana:
Mi aaaaaami? o stai soltanto allargando la tua buona volontà?
Hai bisogno di me almeno la metà di quello che dichiari
o è solo il tuo senso di colpa?
Sono già stato scottato prima e conosco il costo,
quindi non mi sentirai piangere.
Sarò capace di contare su di te, o il tuo amore è vano?
Uno non riesce a non immaginarsi Dylan che provina le sue aspiranti fidanzate (“Riesci a capire quando preferisco stare solo?”, “Conosci come sono fatto e conosci il mio mondo o te lo devo spiegare?”), come se fossero i musicisti che sta selezionando per la big band – e il guaio è che è proprio così: siamo nel periodo in cui Dylan esce con le sue coriste. Fino a quel terribile verso:
Va bene, correrò il rischio, mi innamorerò di te.
Il lamento del milionario innamorabile, con le sue esigenze grandi e piccole (“Sai cucinare? cucire, innaffiare i fiori? Sai capire il mio dolore?“) sarebbe una cosa ridicola anche se non fosse suonato sul canone in Re di Pachelbel, ma senz’altro la cosa non aiuta. La progressione del canone di Pachelbel è talmente antica che probabilmente esiste in natura: quella firmata dall’oscuro compositore barocco è soltanto la traccia più vecchia che ci rimane. Esiste una convenzione non scritta per cui ogni autore ha diritto a scrivere almeno un Pachelbel nella sua carriera – se ne scrive due si sta ripetendo, ma un Pachelbel non si nega a nessuno. Di solito viene usato per i capolavori – per dire, Percy Sledge ci fece When a Man Loves a Woman (Ricky Gianco Pugni chiusi), i Beatles Let It Be, Bob Marley No Woman No Cry, Vasco Rossi Albachiara. Dylan bruciò il suo jolly per scrivere Is Your Love in Vain.
A proposito del trio di coriste – le dylanettes, come le chiamava Robert Christgau. Sono un’infallibile cartina al tornasole. Dylan aveva già usato una sezione vocale nel periodo fin qui meno brillante della sua carriera, tra Self Portrait e New Morning. Le userà da qui in poi per sorreggere il suo canto in tutti i suoi dischi meno ispirati (quel che peggio è che contagerà anche Leonard Cohen). Sul serio: come fai a capire che un disco di Dylan non funziona? Conti le voci femminili. Finché sono due (Desire) è ok. Se sono tre lascia perdere. Eppure.
Eppure non è che l’operazione non avesse un senso. È la naturale risposta a due esigenze divergenti già in Desire: Dylan ha sempre meno voglia di stancarsi le tonsille, e in testa melodie sempre più cantabili. L’esperimento di armonizzare con una sola voce femminile, che pure aveva dato risultati notevoli, si era rivelato instabile; il trio vocale è molto più comodo: possono armonizzare per i fatti loro nel ritornello e Dylan, un po’ imbolsito vocalmente, è libero di andare per i fatti suoi nella strofa. È prassi antica, consolidata (il call-and-response dei gospel): professionismo! Non fosse che ingraviderà più d’una professionista. Fragilità vocale e fragilità sentimentale vanno di pari passo e Dylan sembra quasi volerli esibire: Do you loooooove me? e quelle poveracce devono pure rispondergli in tono, e in coro. Ogni tanto litigavano, e fu al termine di un litigio che Debbie Dye si licenziò e fu sostituita da una certa Carolyn Dennis. Quest’ultima, oltre a metterla incinta, Dylan l’avrebbe sposata: anche stavolta senza dirlo a nessuno. Qualche testo di Street-Legal potrebbe parlare già di lei, ma va’ a capire quale.
La luna dal sangue freddo,
il capitano attende alla celebrazione
inviando i suoi pensieri ad una fanciulla amata
il cui viso d’ebano è al di là della comprensione.
Il capitano è giù ma ancora crede che il suo amore verrà ripagato.
Il brano che imprevedibilmente avrebbe resistito di più di Street-Legal è Señor, il cui sottotitolo (Tales of Yankee Power) secondo Greil Marcus era la cosa più ispirata del disco. Si tratta probabilmente di un falso indizio: malgrado il fulminante inizio (“dove siamo diretti? Lincoln County Road o Armageddon?”, Dylan non sembra davvero intenzionato a irridere un qualche Potere Yankee. Appare più desideroso di dar voce al Sancho Panza di sé stesso: è ancora lunga la strada? E a proposito: dove stiamo andando? Tra le immagini enigmatiche, ma anche un po’ di maniera (zingare dagli anelli magnetici che sventolano bandiere strappate) compare, senza dare troppo nell’occhio, una “croce di ferro” che una donna ancora porta al collo. In una qualche tasca, da qualche tempo, Dylan conservava una collanina del genere. L’aveva raccattata sul palco al termine del concerto. Per ora è solo un simbolo tra tanti: può significare qualsiasi cosa, tutto o niente, bianco o nero. Ma non è troppo facile così? Dopo sedici anni, a Dylan potrebbe venire voglia di scegliere. Che sia il demonio o sia il Signore. Ma che sia qualcosa, finalmente. (Continua)
(Gli altri pezzi: 1962: Bob Dylan, Live at the Gaslight 1962, 1963: The Freewheelin’ Bob Dylan, Brandeis University 1963, Live at Carnegie Hall 1963, 1964: The Times They Are A-Changin’, The Witmark Demos, Another Side of Bob Dylan, Concert at Philharmonic Hall, 1965: Bringing It All Back Home, No Direction Home, Highway 61 Revisited, 1966: The Cutting Edge 1965-1966, Blonde On Blonde, Live 1966 “The Royal Albert Hall Concert”, The Real Royal Albert Hall 1966 Concert, 1967: The Basement Tapes, John Wesley Harding, 1969: Nashville Skyline, 1970: Self Portrait, Dylan, New Morning, Another Self Portrait, 1971: Greatest Hits II, 1973: Pat Garrett and Billy the Kid, 1974: Planet Waves, Before the Flood, 1975: Blood on the Tracks, Desire, The Rolling Thunder Revue, 1976: Hard Rain, 1978: Street-Legal, At Budokan).