Saluti dalla forca, vostro Bob
Highway 61 Revisited (1965)
(L’album precedente: No Direction Home;
il successivo: The Cutting Edge).
Vendono cartoline dell’impiccagione.
Esiste un modo migliore di cominciare una canzone, o qualsiasi altra cosa? Funzionerebbe persino su internet: VENDONO CARTOLINE DALL’IMPICCAGIONE. Non clicchereste? Ok, voi magari no, ma fidatevi, sarebbe virale in cinque minuti. Dopo un inizio così puoi scrivere veramente qualsiasi cosa. Dylan ci scrisse Desolation Row, che in effetti è abbastanza vicina al concetto di “qualsiasi cosa”. Contiene Caino, Abele e il gobbo di Notre Dame; Casanova ucciso dal Fantasma dell’Opera con un’overdose di autostima; Ezra Pound e T.S.Eliot che fanno a pugni sulla plancia del Titanic, e cose persino più interessanti; ma non filerebbe così bene se non cominciasse con quel colpo di fulmine: da qualche parte hanno impiccato qualcuno, e sono talmente soddisfatti che hanno scattato foto e le spediscono come cartoline. Sembra il far west distopico della Lotteria di Shirley Jackson. Un incubo in un verso. Che genio visionario che è Bob Dylan, pensi.
Anni dopo, oziando su Internet, scopri che fino agli anni Venti negli USA le cartoline dalle impiccagioni esistono davvero: non negli incubi, ma anche nel Minnesota di Bob Dylan, uno Stato del Nord che non era mai stato schiavista. Nel 1920 tre operai neri di un circo appena arrivato a Duluth erano stati fermati con l’accusa di aver stuprato due ragazze. Siccome né la polizia né i medici riuscivano a trovare prove per un processo, ai bravi cittadini radunati fuori dalla prigione fu concesso di estrarre dalla prigione i tre colpevoli e appenderli a un albero. Poi i bravi cittadini si misero in posa per le foto. Dylan è nato a Duluth, vent’anni dopo, quelle foto le ha viste sicuramente. “Il circo è in città“, canta, nella stessa strofa. Da Duluth passa l’autostrada 61, quella che attraversa il paese da nord a sud collegando la regione dei Grandi Laghi con la valle del Mississippi fino a New Orleans: quella che incontra la 49 in quel mitico crocicchio in cui si racconta che Robert Johnson vendette l’anima al diavolo in cambio del privilegio di suonare il blues. È solo una leggenda: quel che è vero è che nel ’37 in quello stesso tratto morì in un incidente la cantante Bessie Smith. Aspettava soccorsi, ma in un ospedale per bianchi non l’avrebbero presa.
Adesso mi piacerebbe scrivere una melodia così semplice che potesse trattenere la vostra signora dalla pazzia; che potesse calmarvi, tranquillizzarvi, farvi passare il dolore della vostra consapevolezza inutile e insensata. La mamma sta in fabbrica, non ha le scarpe. Il babbo è per strada, cerca il fusibile. Io sono in cucina coi miei blues lapidari.
Abbiamo lasciato BD confuso e amareggiato a Newport, il 25 luglio. Era andato a scandalizzare i finti poveri del folk festival, si era preso i fischi. Quattro giorni dopo è di nuovo in sala di registrazione. Incide un singolo, Positively 4th Street, una ringhiosa recriminazione contro quella scena del Village che ormai lo considera un traditore, e inizia a lavorare ai primi brani del prossimo album. Con lui c’è più o meno lo stesso gruppo di musicisti che gli ha aiutato a partorire Like A Rolling Stone. Compreso Al Kooper, il pianista che si era intrufolato nello studio e poi era riuscito a suonare un riff di organo che a Dylan era piaciuto. Invece non c’è più Tom Wilson, che quel riff avrebbe preferito nasconderlo nel missaggio. Dylan pensa di poter fare a meno di lui e forse non ha tutti i torti. Ma non aveva tutti i torti nemmeno Wilson, quando faceva presente a Dylan che Kooper non era un professionista dello strumento (non l’aveva mai suonato prima di allora). Lo stesso Kooper era convinto di partecipare a un esperimento, non di incidere la versione più famosa del brano rock più celebrato: sta seguendo gli altri strumenti, durante la strofa è sempre una frazione di secondo in ritardo. Per Dylan andava bene così. È l’eterna lotta tra il rock e il professionismo. Per Wilson quell’organo era una barbarie, per Dylan era l’elemento dissonante che faceva la differenza, che rendeva quella canzone diversa da tutte le altre.
Forse l’aveva capito ascoltando i Beatles. Persino nei primissimi dischi, con una strumentazione ridotta all’osso, i Beatles riescono sempre a mettere in ogni pezzo qualcosa che lo rende immediatamente riconoscibile, dopo pochi istanti di ascolto alla radio. Può essere un coretto, un riverbero, un accordo imprevisto: è la sigla dell’intera canzone, la firma che la rende diversa già al primo ascolto. In Bringing It All Back Home Dylan non ha ancora imparato a firmare i suoi pezzi elettrici: ogni strumento fa il suo dovere e il tappeto sonoro è abbastanza uniforme. In Highway 61 ci sono alcuni istanti tra i più inconfondibili di tutta la carriera di Dylan: l’attacco dell’organo di Like a Rolling Stone, il fischietto di Highway (preso in prestito dal nuovo accondiscendente produttore, Bob Johnston), l’introduzione pianistica di Ballad of a Thin Man (subito contrappuntata dall’organo di Kooper, che anche qui ha carta bianca e fa quello che gli pare), e in Desolation Row i fraseggi flamenco di Charles McCoy, il primo dei tanti musicisti di Nashville che suoneranno nei dischi di Dylan. Altre cose un po’ meno note ma ugualmente meritevoli: la spinta assurda di Tombstone Blues, con la chitarra acustica e la batteria che ci danno dentro come dannati mentre la chitarra di Bloomfield accompagna il canto calmissima, come un bluesman che si fa i fatti suoi su un vagone merci che sferraglia nella campagna; o la chitarra lievemente scordata di Queen Jane Approximately di cui forse Dylan non si è accorto; o l’ha lasciata perché era stufo di registrare; o perché le chitarre accordate si assomigliano tutte, mentre quella approssimativa di Queen Jane si ascolta solo in Queen Jane.
Quando tua madre ti rispedisce indietro tutti i tuoi inviti, e tuo padre spiega a tua sorella che sei stanca di te stessa e di tutte le creazioni, mi verrai a trovare, Regina Giovanna?
Highway 61 è un collage di tutte le cose che Dylan credeva di aver capito e che adesso non hanno più nessuna importanza: nomi vuoti che diventano filastrocche. C’è tutto un catalogo di persone che non dovrebbero essere lì (come nella copertina di Sgt. Pepper); non si capisce proprio cosa ci facciano: la bandita Belle Starr, Jack lo Squartatore, Giovanni Evangelista (c’è anche nell’ultimo dei Baustelle), Galileo, Dalila, Cecil B. De Mille, Ma Rainey e Beethoven che dividono la stessa tenda. E siamo solo a Tombstone Blues. Dylan ha inventato il namedropping ossessivo, il riciclaggio pop di una cultura alta/media/bassa che spunta fuori dai versi come le foto dai giornali che non si sono del tutto squagliate nel macero della cartapesta.
Highway 61 Revisited è l’unico disco di Dylan che io abbia comprato in vinile. Per qualche tempo per me la coolness coincideva esattamente con l’accovacciarsi in un angolo, guardando l’interlocutore con un’aria di sfida. Se ti guarda fissa così, evidentemente anche tu ti sei accovacciato. Ti sta ipnotizzando. Quando cominciano i vostri ricordi a colori? I miei genitori ricordavano tutto il loro passato in bianco e nero: colpa di tv e cinema. Io stesso ho sognato in bianco e nero per tutte le elementari. Gli anni della mia infanzia hanno i colori sfalsati dei filtri di instagram; gli anni Sessanta me li immagino in bianco e nero. Il colore comincia con due copertine di 33 giri: Sgt. Pepper e Highway 61 (il che significa che gli americani arrivano al colore due anni prima, e tutto sommato ci sta). La storia dell’umanità acquisisce il colore direttamente dalla camicia di Bob. Il mio vicino di casa produceva camicie simili, le compravo a metà prezzo, ho accecato tutti i miei compagni di liceo e ora è un po’ troppo tardi per scusarsi, facciamo che è colpa di Bob Dylan.
(Nel centro secco e impolverato di Modena c’è un vicolo che, senza che BD ne abbia alcuna responsabilità, si chiama Squallore. È nel cuore del Ghetto, ma in quegli anni cosa potevo saperne. Lo scovai in una delle mie prime gite in cerca di negozi di dischi, e all’inizio avevo un po’ paura ad entrare, anche perché è uno dei pochi vicoli ciechi. Un giorno che aspettavo la corriera presi il coraggio a piene mani e mi addentrai. In fondo al vicolo c’era un tizio che si faceva, senza dubbi, una pera. D’altronde, che potevo mai aspettarmi in fondo a un vicolo cieco nel centro di Modena a metà anni Ottanta? Era una piazza di una certa importanza, i tossici di tutta l’Emilia venivano tutte le mattine col treno a farsi da noi. Però immaginatevi di essere un ragazzino che ascolta Dylan e trova un Vicolo Squallore e dentro c’è gente poco più grande di lui che si fa le pere. Ci scrissi una canzone, che altro potevo fare? Voi avreste fatto lo stesso).
È molto difficile scrostare i miei ricordi da Highway, e rendersi conto che è un disco molto diverso da quello che credevo di ascoltare io. Era un momento della mia vita luccicante, colorato, ogni giorno una promessa diversa e tuttora non riesco a convincermi che Dylan non fosse allegro mentre incideva Highway. Tanto poco facevo caso ai testi. Non avevo l’attenzione o la necessità di accorgermi che è l’allegria di un naufrago, di un condannato al patibolo, di un candidato suicida. Ogni solco parla di morte. “Ho bisogno di una ruspa, baby, per tenerla a bada”. È dappertutto, lo insegue sull’autostrada dal Minnesota, lo aspetta a casa – anche la sua ragazza è pronta a stendergli il sudario sulla testa. Sulla cima della collina, nel deboscio per turisti di Juarez, nel vicolo Desolazione, la morte è dappertutto. Persino la title track, l’apocalisse più scherzosa che Dylan abbia mai messo in musica, è più inquietante di quel che può apparire al primo ascolto. Dio disse ad Abramo: uccidimi un figlio. Abe disse a Dio: mi stai prendendo in giro? Potrebbe essere il primo riferimento esplicitamente biblico di Dylan. Ma anche il primo riferimento al padre, che si chiamava Abram (Dylan ha anche un nome ebraico: Zushe ben Avraham). Dio Disse, ehi Abe. Abe disse: beh? Dio disse: puoi fare come vuoi, ma la prossima volta che mi vedi ti conviene metterti a correre. Abe disse: questo sacrificio, dove lo vuole? Dio disse: sull’Autostrada del Sole.
Un mese dopo il disco è pronto, ma Dylan è in California. Like a Rolling Stone si è fatta strada in classifica, ma non riesce ad arrivare alla prima posizione. Non ci sarebbero motivi per prendersela, se al primo posto non ci fosse Eve of Destruction, una canzone di protesta, una canzone contro la guerra nucleare! Una di quelle canzoni che Dylan aveva smesso di scrivere perché, tra le altre cose, voleva vendere di più. Una canzone, peraltro, che sembrava scritta da un discepolo del Bob Dylan acustico, uno che aveva preso molti appunti e ci aveva aggiunto poca fantasia. Si chiamava P. F. Sloan e prima di conoscere Dylan scriveva surf music. Portatemelo, dice Dylan. Ormai è abituato a comportarsi da boss. Il timido Sloan viene condotto all’Hollywood Sunset Hotel, al cospetto del Maestro Bob Dylan. Il Maestro in persona gli fa ascoltare Highway 61 Revisited in anteprima assoluta. Sloan è al settimo cielo, e quando ascolta Ballad of a Thin Man si rotola in terra dal ridere. Anche Bob ride. Che buffo questo Mr Jones che non capisce quel che sta succedendo. Alla Columbia credono che sia una canzone da comunisti, dice Bob. Poi esce perché è arrivato David Crosby dei Byrds.
Sloan rimane solo. Dalla stessa porta entrano due ragazze in topless. Non parlano, si siedono su un divano. Sloan non sa cosa pensare. Da una finestra entra un tizio in pigiama di seta, cappello e maschera da Zorro. Si siede tra le due ragazze. Fissa Sloan. Sloan non capisce quello che sta succedendo. Dura un quarto d’ora. Non è poi così divertente, vero? Highway 61 Revisited è un disco divertente, se lo guardi da fuori. In certi punti fa veramente morire dal ridere. Finché per caso non ti accorgi che parla di te. Ma magari non succede a tutti.
Entri nella stanza con una matita in mano: vedi qualcuno nudo e dici: chi è quest’uomo? Per quanto ti sforzi non riesci a capire quello che dovresti poi dire quando sarai a casa. Perché sta succedendo qualcosa, e tu non sai che cos’è, vero, Mr Jones?
Un sistema per verificare la propria età mentale è riascoltare Ballad of a Thin Man e misurare la propria empatia per quel poveraccio che Dylan sembra aver ficcato in una canzone al solo scopo di torturarlo con scherzi senza senso. È un giornalista che non si è ancora rassegnato a ridacchiare per le risposte senza senso che la rockstar elargiva alle conferenze? È un critico letterario o musicale che cercava di ingabbiare il Bambino Terribile in qualche griglia fuori moda? È un tizio che non è al corrente delle ultime novità in fatto di musica o di sostanze? Dylan, ricorderete, ci ha messo tanto tempo a diventare giovane e adesso finalmente ce l’ha fatta, forse non sarà mai più giovane di così: mai più altrettanto stronzo e insopportabile. Sembra dare per scontato che i vecchi non possano capirlo, ma abbiano il preciso dovere di provarci. Va bene, proviamoci. Di fronte all’esibita schizofrenia di Highway – un disco lugubre e mortifero che sprizza energia positiva a ogni ascolto – possiamo scegliere tra due ipotesi. La prima è che tutta questa morte, questa decadenza, questa apocalisse, non siano che pose di un ragazzino che sta giocando in sala d’incisione con le parole, con i blues e coi fischietti. I testi, per quanto immaginifici e traboccanti di riferimenti, non sono che l’accompagnamento: la vera poesia di Highway è la musica, e la musica di Highway è una festa. Magari quel tipo di festa in cui qualcuno si aggira stonato senza sapere dove vomitare; una di quelle feste in cui T.S.Eliot ed Ezra Pound potrebbero venire alle mani, mentre tutti gli altri fanno l’amore o aspettano la pioggia: ma è una festa e valeva la pena esserci. Questa è una prima ipotesi.
Ora il giocatore vagabondo si stava annoiando. Cercava di creare una Terza Guerra Mondiale. Trovò un promoter che cascava dalle nuvole, disse: non ho mai fatto una cosa del genere, però, beh, sì, credo che si possa fare: prendiamo delle gradinate, le stendiamo all’aperto, e lo facciamo sull’Autostrada del Sole.
La seconda ipotesi è che Dylan non stia scherzando. Ha davvero bisogno di una ruspa a vapore, baby, per tenersi lontano dai morti. Sta schizzando veloce come un proiettile, senza più punti di riferimento che lo informino sulla velocità e sull’eventualità di un impatto. Fin qui tutto bene, ma quanto potrà durare? Col senno del poi è facile prendersi gioco del panico della giovane rockstar, ignara di avere ancora mezzo secolo di carriera davanti.
In quegli anni però la morte è una possibilità concreta, che Dylan fiuta ovunque intorno a sé. Proprio nel 1965 muore a Londra Geno Foreman, giovane cantautore che per un attimo era stato suo maestro, poi suo rivale, poi sua guardia del corpo, e poi in un modo o nell’altro avevano litigato e da qualche mese se la passava davvero brutta: alcool e droghe, l’ultima volta che aveva cercato di parlare con Dylan, questo era in limousine e lui era un vagabondo, liquidato senza complimenti. Nello stesso anno si taglia le vene il folksinger Peter La Farge, col quale Dylan aveva diviso il palcoscenico nei primi anni al Village. L’anno successivo un incidente in moto si porterà via Richard Fariña, cantautore di talento e marito di Mimi Baez, sorella di Joan; Pablo Clayton, altro ex compagno di viaggi di Bob e tossicodipendente, sempre nel ’66 morirà folgorato da una stufetta elettrica caduta nella vasca da bagno. Phil Ochs lotterà ancora per dieci anni una guerra infinita con la depressione e le dipendenze. Tutti cantautori impegnati del Village, tutti più duri e puri di Bob, tutti più impasticcati di lui: la strada verso la gloria è disseminata delle tombe di quelli che non ce l’hanno fatta, di quelli che glielo leggi in faccia: non ce la faranno. È anche la strada verso la sopravvivenza, ma nel ’65 come può sospettarlo? Ziggy Stardust, la rockstar inventata da Bowie, era convinto di avere a disposizione cinque anni al massimo: forse Dylan ai tempi di Highway se ne dava ancora meno, e questo forse spiega la fretta con cui incide e va in tour (questo, e l’ingordigia del suo manager). Non importa quanto in alto si stava alzando: prima o poi sarebbe rotolato a terra. Non era proprio necessario morire: l’altra possibilità che BD contempla tra i solchi di Highway è un meno impietoso fallimento, quello descritto in Like a Rolling Stone, Queen Jane e Desolation Row (sarà una coincidenza, ma sono gli unici tre brani a non condividere la struttura del blues). Magari sarebbe semplicemente tornato nel suo vicolo Desolazione, con qualche vago e inattendibile ricordo del mondo là fuori. È un destino talmente inevitabile che non ha senso crucciarsi. Highway 61 suona così bene perché è l’ultimo disco di un uomo che non ha niente da perdere, e spara le sue cartucce, i suoi fuochi d’artificio migliori.
Sì, ho ricevuto ieri la tua lettera (proprio quando mi si è rotta la maniglia della porta). Quando mi chiedi come stai, cos’è, una specie di battuta? Tutte queste persone che tu mi nomini, li conosco, ma sono sfuocati. Devo risistemare le loro facce e dare a ognuno di loro un nuovo nome. Anche adesso non ci leggo molto bene, non mi spedire altre lettere, no – a meno che non me le mandi da Vicolo Squallore.
(Gli altri pezzi: 1962: Bob Dylan, Live at the Gaslight 1962, 1963: The Freewheelin’ Bob Dylan, Brandeis University 1963, Live at Carnegie Hall 1963, 1964: The Times They Are A-Changin’, The Witmark Demos, Another Side of Bob Dylan, Concert at Philharmonic Hall, 1965: Bringing It All Back Home, No Direction Home, Highway 61 Revisited, 1966: The Cutting Edge…)